martedì 14 giugno 2016

IL LAVORO

I meccanici delle officine italiane con i loro racconti ci spiegavano come creavano i primi camion, le prime corriere moderne, quei mezzi che si staccavano nettamente dalle sembianze del carro trainato dagli animali e apparivano, con le loro carrozzerie dai bordi arrotondati, attenti perciò già all’aerodinamica, automezzi progettati intorno al loro cuore rombante, il motore.
Una fotografia è sicuramente riduttiva rispetto a quelle parole così piene di esperienza, così precise e così ricche di mestiere. Ci facevano capire come la teoria degli studi tecnici, rivolta al miglioramento dei primi motori diesel e alla creazione delle prime carrozzerie, che dovevano vestire i telai con le parti meccaniche, passasse nel metallo del motore o nel legno e nelle lamiere della carrozzeria attraverso le mani di quegli artigiani. Sono perfetti quegli automezzi nuovi che si vedevano uscire dalle officine immortalati nelle fotografie, ma anche caldi, vitali ed espressivi. Se guardi bene il frontale della cabina, se la osservi attentamente, capisci dalla forma, dalle finiture, dalla disposizione dei fari, dalla calandra alle volte personalizzata, di non essere di fronte od un oggetto freddo ed inerte, ma forgiato, piegato, lavorato dalle mani degli uomini, utilizzando tutta l’intelligenza, il raziocinio e l’esperienza che una persona può impiegare per costruire un qualcosa a cui veramente crede, come se volesse trasferire tutto il suo sapere e anche un poco di sé in quella macchina che poi diventerà un autocarro. In quelle fabbriche, a quei tempi, gli occupati non penso avessero velleità di mero arricchimento di denaro, bensì, immagino, lavorassero con quell’impegno per la loro soddisfazione nel potersi esprimere al meglio, di poter partecipare attivamente col saper fare qualcosa, paghi della soddisfazione che abbiamo cercato di spiegare nel capitolo precedente intitolato alla passione, già gratificati nell’occupare un posto che gli desse onore nella società, senza il narcisismo dell’apparire ma con l’orgoglio del poter fare. Solamente se pensiamo questo possiamo spiegarci come abbiano potuto realizzare quei veicoli, cominciando in fin dei conti dalla carta bianca e dalla materia prima. Mi piace immaginare le officine dove nascevano gli autocarri e le corriere in modo diverso da quello che potevano essere invece le fabbriche di automobili, intendo le vetture di serie, rivolte alla produzione in grande quantità dove utilizzavano linee di produzione come la catena di montaggio, mi sovviene il film “Tempi moderni” del premonitore Chaplin. Le corriere e gli autocarri penso fossero costruiti in ambienti più partecipati dagli addetti, sarei propenso a paragonarli a quelli dove si occupavano delle automobili sportive, così originali, pronti ad accogliere qualsiasi idea che potesse migliorarne l’uso per il quale erano destinati. Pensiamo a quante soluzioni nuove, giorno dopo giorno, si doveva essere capaci a trovare per rispondere a tutte le esigenze, le richieste che di mano in mano arrivavano dall’industria e dal commercio, ora che questo si organizzava per la distribuzione di tutti quei nuovi prodotti che dovevano raggiungere i mille negozi aperti in ogni centro abitato, come anche per i trasporti delle persone, sia nell’urbano che nel turismo, perciò si può immaginare una occupazione viva e partecipe, che portandosi dietro l’atteggiamento di un popolo rustico, abituato a trattare i prodotti della terra in agricoltura, cercava ora di far nascere, di tirar su, degli oggetti che senza avere il dono della vita, come le piante, avevano lo stesso il bisogno di apparire vivi e utili come tutto quello che sino allora aveva sostentato le persone in paesaggio agreste.
Guardando le vecchie fotografie e parlando con i protagonisti del tempo ho potuto cogliere un aspetto allora frequente della vita di un automezzo, che riguardava in special modo gli autoveicoli adibiti al trasporto di persone, l’uso delle trasformazioni. Difatti sia le autovetture, che le corriere in particolare, erano soggette a modifiche anche importanti della carrozzeria dopo che, uscite nuove dalle fabbriche, venivano impiegate per il loro scopo di trasportare persone sino a quando per la vetustà o per la obsolescenza, iniziavano a diventare scomode o inospitali, prendevano allora la strada per le officine specializzate nei lavori di carrozzeria, dove le trasformavano per renderle utili negli usi più disparati, per soddisfare gli ordini commissionati dai loro clienti. In effetti le corriere avendo il telaio ribassato permettevano di carrozzare delle furgonature di elevata capacità, acquisendo una grande volumetria interna, che poteva per esempio soddisfare una ditta di traslochi o altre che avessero dovuto trasportare prodotti leggeri ma ingombranti. Per citare un caso di trasformazione che riguardasse l’automobile mi ricordo una Mercedes grigia con i pannelli di lamiera bianchi, risalente agli anni trenta e trasformata in furgone coibentato negli anni cinquanta del dopoguerra, questa trasportava stoccafisso norvegese importato e lavorato da una ditta di Albisola che, con quel mezzo, provvedeva a consegnarlo a tutti i suoi clienti dettaglianti. L’immagine nel vederla arrivare era imponente, infatti il lungo cofano che racchiudeva il famoso motore, come anche tutti gli altri particolari esterni a vista, ne affermavano la classe ma contemporaneamente suscitava ambiguità per il fatto che per metà era auto di gran prestigio e per l’altra furgone da trasporto e questo destava sia l’ammirazione nel vederla furgone che l’umiliazione ricordandone il prestigioso passato. Così era normale per numerosa altre attività acquistare a prezzo ridotto il mezzo, di qualità e robusto e anche con un passato glorioso, per farli trasformare, adeguare, per il servizio che da lì in poi avrebbero dovuto svolgere. Mi sovviene un altro ricordo che a mio giudizio ritengo significativo per l’epoca, a esempio di un’attività che provvedeva alla manutenzione delle numerose biciclette, magari motorizzate, circolanti sulle strade dell’epoca. Protagonista il signor Gaggero Giovanni Battista, questi finita l’esperienza come socio nella ditta SABAZIA di Savona, produttrice di biciclette e cicli motorizzati col famoso motore modello Mosquito della Fabbrica GARELLI, fedele al proprio lavoro, aprì un negozio di vendita di biciclette e pezzi di ricambio. Ogni cosa a quei tempi era fabbricata per durare a lungo e per questo, in aggiunta alle strade che solitamente erano bianche, necessitava sempre di molta manutenzione, ciò rendeva necessaria anche per le biciclette una fitta rete di meccanici e officine di riparazione. L’idea geniale e innovativa, che ci tiene legati al discorso sulle trasformazioni degli automezzi avuta da questo imprenditore, fu di acquistare una corriere a fine servizio, motorizzata OM Taurus e farla modificare in modo che potesse ospitare un magazzino mobile, così da potere servire e rifornire i suoi clienti da Savona a Ventimiglia, i quali volevano avere l’opportunità di aggiustare qualsiasi tipo di bicicletta senza muoversi dalla propria officina, guadagnando tempo da dedicare al lavoro e, cosa ancora più importante, evitare di accumulare nel loro magazzino quantità cospicue di pezzi di ricambio, i quali, oltre a rappresentare un capitale temporaneamente inutilizzato, potevano appunto non essere venduti se non ve ne fosse stata richiesta. Il signor Gaggero GB, che ricordo anche come grande appassionato di montagna, insieme ai suoi tre figli aveva centrato la risposta giusta al bisogno comune di un numero elevato di riparatori. Questi, una volta alla settimana, lo aspettavano puntualmente per potere consegnare aggiustate le biciclette ai loro clienti, riconoscendolo arrivare col suo Taurus OM il quale, anziché essere demolito, per altri vent’anni aveva continuato a lavorare come fedele aiutante di quell’uomo che gli aveva ridato nuova vita.
Ad Albissola come a Finale dopo la seconda guerra mondiale erano sorte delle prime attività produttrici di bibite da destinare ai pochi locali pubblici della Riviera o ai pochi privati consumatori, in particolare la ditta BRUNO di Parodi Stefano in Albisola, proprietaria di una magnifica FIAT 1100 ELR cassonata, produceva e confezionava bevande , dopo aver lavato e igienizzato manualmente le bottiglie, l’addetto le collocava su un piccolo nastro trasportatore, posto all’inizio di una macchina creata artigianalmente, la quale provvedeva a immettere una dose di sciroppo della qualità desiderata e, continuando a trasportarle lungo questo percorso obbligato, riempiva di acqua gassata il rimanente vuoto nella bottiglia sino ad arrivare, nella parte finale del nastro, a chiuderle o con la sfera galleggiante dentro di queste o con un più moderno tappo metallico. Il servizio della ditta non finiva certo qui, perché per essere apprezzate dai primi consumatori bisognava tenerle a bassa temperatura e questo si otteneva tenendole nelle ghiacciaie, scatole di legno foderate di alluminio dove dentro ci si depositava una quantità di ghiaccio prodotta da una ditta specializzata di Savona, nominata appunto fabbrica del ghiaccio. Uno dei proprietari della ditta Bruno perciò faceva la spola tra questa fabbrica e i locali di Albisola o delle località limitrofe per rifornirli sia delle sue bibite in bottiglia, come anche dei pezzi di ghiaccio rotti con un rudimentale attrezzo in dimensioni adatte alle richieste dai suoi clienti, ad ogni fermata un nugolo di bambini, che allora affollavano le strade, lo circondava intorno alla 1100 per prendere le schegge di giaccio rimaste da quella rottura come per impadronirsi di un qualcosa di nuovo e piacevole contro il caldo estivo. L’aumento del numero di addetti che in poco tempo il settore della costruzione degli automezzi offriva, e di conseguenza il fiorire di un sistema improntato al trasporto su gomma, con tutti i relativi bisogni da assecondare per soddisfarlo, ci fa pensare alla crescita di qualsiasi attività che facesse parte dell’intero sistema produttivo. Le aziende avevano la tendenza se non ad espandersi ad adeguarsi nel modo di lavorare, attrezzandosi con questi automezzi  che piccoli, medi o grandi fossero, miglioravano con le loro caratteristiche la gestione aziendale, dando anche un’immagine di modernità nell’accostarsi ai prodotti e valorizzandoli.
Negli anni ’50 del dopoguerra il sistema economico italiano si sviluppa e le aziende iniziano ad ingrandirsi per soddisfare la domanda che arriva anche dall’estero, si parla a grandi numeri, negli anni ’60 la televisione surclasserà ogni tipo di media dotando la pubblicità di un potere mai avuto sino ad allora e diventando l’alleato maggiore delle grandi imprese. Dunque oltre al mercato interno si comincia a guardare le altre nazione e sempre più lontane come nuovi e importanti mercati di sbocco, tutti gli imprenditori volevano raggiungere nuovi target e il guadagno dovuto all’espansione crea una situazione finanziaria che arriverà poi a staccarsi purtroppo dalle vera economia della nazione. Comunque in quel ventennio rimane la qualità nella produzione a determinare l’impegno nelle attività, compresa l’agricoltura che diminuendo di importanza a causa dell’industria era lo stesso considerata basilare, perciò non erano le manovre finanziarie fine a se stesse ad impegnare chi aveva disponibilità ma il saper produrre innovando che creava ricchezza, cioè quel giusto bilanciamento tra le idee della progettazione e le fatiche e i rischi della realizzazione, con la contropartita di un prodotto ad alto valore aggiunto, il quale facendosi apprezzare appunto anche all’estero lanciava l’economia italiana portando ricchezza a tutta la nazione.
Il sistema di trasporto con i nostri amici camion era il tassello fondamentale dell’allora moderno sistema produttivo, coinvolgendo le industrie con le nascenti flotte di autocarri come le piccole e medie aziende, con la conseguente occupazione per migliaia di addetti sia nelle fabbriche dove nascevano gli autoveicoli come nei cantieri che davano vita alla nuova rete stradale e autostradale la quale si stava adeguando a sua volta, ma lentamente rispetto alla crescita economica, senza offrire quelle necessarie infrastrutture che sapessero anticipare i tempi e far arrivare nel giusto momento il futuro.
La provincia di Savona agli inizi degli anni ’60, mi ricordo, aveva due soli brevi tronchi autostradali i quali permettevano di raggiungere a est Genova Voltri e, a nord, il paese di Priero ai piedi dell’Appennino dalla parte piemontese, erano tronchi autostradali che si sviluppavano su di una sola carreggiata a doppio senso di circolazione, dove si alternavano tratti di divieto di sorpasso con altri, solitamente in salita, dove questo invece era permesso, creando però situazioni di pericolo. Questo ci fa capire che purtroppo non tutti i settori dell’economia avanzavano di pari passo ma, al contrario, ostacolandosi, rallentavano lo sviluppo che avrebbe potuto proseguire su un fronte molto più ampio, investendo e trascinando l’economia anche in zone del paese dove ancora adesso esistono difficoltà.
Voltarsi indietro a guardare come nel dopoguerra si trasformava il modo di lavorare, di pensare, di rapportarsi al prossimo, benché lentamente, degli uomini di quei tempi ci fa riflettere su come gli orizzonti per la gente si stessero allargando a nuovi e futuristici scenari. Lo spirito moderno che invadeva tutto e tutti portava a lasciarsi alle spalle il vecchio modo di vivere, dagli anni ’50 nuove tecnologie erano offerte dapprima alle fasce sociali più alte ma, ben presto queste si allargava a tutta la società che impaziente le desiderava.
I camionisti, testimoni di quelle piccole realtà provinciali,  percorrendo tutta la nazione erano messaggeri di un ordine scaturito dalla volontà di tutta la popolazione nel collaborare ad un progetto nuovo di vita, comune a tutto il Paese, che facesse superare i campanilismi, difesi anche con l’uso del dialetto col quale le comunità rimarcavano i  confini del loro territorio, facendoli diventare sempre più piccoli modificando le parole del dialetto locale nel parlarlo “stretto” in correlazione appunto col loro piccolo territorio e questo permetteva di comunicare solamente tra i membri della stessa comunità, perciò iniziava a saper di vecchio quel tipo di comportamento, l’immagine che scaturiva da certi atteggiamenti legati al passato relegava queste persone in ambienti che non avrebbero avuto futuro. Se per una parte queste erano le prove di una comunità dotata di tradizione, di esperienza e di cultura vincenti, dall’altra rappresentavano la preclusione alla diversità e al dialogo verso altre realtà con le quali scambiare lavoro e merci, se non anche cercare sinergie fondamentali per crescere.
Dalle fotografie possiamo comprendere chi poteva essere un autotrasportatore agli inizi della storia dell’autotrasporto, cioè dagli anni ’30, lo paragonerei al comandante di un veliero, come quelli che già tanti anni prima avevano solcato le vie d’acqua su rotte difficili da seguire, per lo stesso fine e con la stessa responsabilità rivolta alla merce trasportata, al mezzo conosciuto in ogni minimo particolare e preoccupandosi di averlo sempre efficiente grazie ad una loro sapiente manutenzione, conducendolo con qualsiasi clima avendo la sensibilità e la capacità che garantivano la sicurezza delle persone e del carico a bordo. L’ingegno di saperlo caricare di quella merce considerata effettivamente preziosa, perché prodotta ancora in quantità limitate con sistemi artigianali. Caricare un camion era un’arte che dava profonda soddisfazione, come per quei velieri, questo valeva per ogni tipo di merce dalle più grezze alle più lavorate perciò degne di un’imballaggio, se di piccole dimensioni queste dovevano essere sistemate in modo da riempire il cassone con più pezzi possibili ma equamente disposte, se invece pesanti di un solo pezzo allora la disposizione doveva cercare l’equilibratura tra il ponte posteriore e l’asse sterzante anteriore in modo da dare guidabilità e trazione all’automezzo carico, doveva essere grande la soddisfazione alla partenza quando si verificava il lavoro fatto dalle prestazioni alla guida. Così il carbone, come la legna o i fusti e i bidoni per i prodotti liquidi, usavano anche le sovrasponde per il fieno e le altre merci voluminose ma leggere e, se pensiamo ai prodotti finiti, quelli che avevano in sé il grande valore aggiunto del lavoro e della ricerca, allora il problema di come caricarli diventava difficile, trovare una soluzione che li portasse integri a destinazione, viaggiando sulle strade accidentate affrontate con le sospensioni a balestra senza gli ammortizzatori cercando di sfruttare al massimo la portata del camion, al quale sicuramente si chiedeva sempre più del dovuto.
Il camionista capiva immediatamente se il carico fosse stato disposto adeguatamente sull’automezzo, all’autista non erano ammesse ipocrisie nei confronti del suo stato d’animo, infatti se la merce avesse sbilanciato il camion avrebbe condizionato per tutto il viaggio il conducente nella guida, procurandogli la sofferenza di chi subisce nella permanenza di un piccolo luogo angusto, come diventa in quelle condizioni la gabina di guida, il pericolo di guidare un autotreno caricato di enormi pesi che uniti alla velocità e alle condizioni della strada, magari di notte con neve e ghiaccio e nebbia, non rendevano più affidabile il camion ai comandi di chi lo guidava. Uomini specializzati dedicavano lavoro e fatica per caricare il cassone, ogni prodotto necessitava di una disposizione particolarmente accurata quando lo si disponeva nell’autocarro, utilizzando imballaggi naturali come la paglia, il fieno o il legno e finito questo primo uso venivano riciclati per altri impieghi più consoni alle loro caratteristiche.
Un amico autotrasportatore, un padroncino, mi ha fatto capire come negli anni ’50 le ditte erano già attente alle questioni finanziarie, infatti la nascente competitività commerciale portava gli imprenditori a dover essere scrupolosi nel calcolare i costi delle loro aziende perciò anche per gli autotrasportatori tutto doveva essere calcolato e ottimizzato. Racconto a questo proposito la delusione di quei camionisti che all’entrata del porto di Savona, nelle giornate piovose, avevano nello scorgere un segnale piazzato sul muro accanto alla finestra degli uffici della compagnia Pippo Rebagliati, quella dei “Camalli”, vicino ai cancelli del porto, che si occupava della movimentazione a mano di tutte le merci caricate e scaricate nel porto, luogo di grande opportunità di lavoro per la città, qui le navi ancora di piccole dimensioni approdavano cariche di molti tipi di merce, questi carichi non erano protetti da nessun tipo di imballaggio, dunque erano soggetti all’inclemenza del tempo atmosferico. Era la manualità di questi camalli che sapeva disporre il carico, pezzo per pezzo, nel cassone del camion come nella stiva della nave o nei carri ferroviari, la merce era passata da un vettore all’altro a mano perciò questa era vulnerabile al tempo e quindi era necessaria l’interruzione della movimentazione quando pioveva o magari solamente minacciava di pioggia affinché non si deteriorasse. Per questo la Compagnia dei Portuali, con i suoi tecnici, aveva escogitato un segnale molto originale e di indubbia interpretazione, un pallone di cuoio infilzato in un’asta metallica fissata con due staffe in modo verticale parallela al muro, se il pallone era in basso gli autisti sapevano che i traffici erano regolari, invece se il segnale era posizionato a metà dell’asta indicava che le condizioni meteorologiche aprivano un periodo di due ore di attesa per decidere se interrompere o riprendere le operazioni di carico e scarico, se infine il pallone era nella posizione più alta dell’asta non si muoveva nessun tipo di merce sino al ristabilimento del clima. Immaginiamoci i commenti e le interpretazioni di quelli che vedendolo in alto e già avevano programmato il calendario dei loro viaggi, prendendo accordi con le varie fabbriche o con gli agenti spedizionieri committenti di ordini per il trasporto di cose che avevano fretta di essere vendute, avevano fretta di soddisfare bisogni, che avevano il potere di procurare guadagno, soldi. Tutti calcoli e argomentazioni studiati in ambienti chiusi come uffici e scagni, dentro ad appartamenti di palazzi, ambienti artificiali, calcoli teorici e ragionamenti fatti senza tener conto del clima che ancora condizionava il lavoro dell’uomo, il tempo meteorologico fattore condizionante e decisivo sia per l’agricoltura che per l’allevamento, negli orti come nei pascoli a dettare i ritmi di lavoro. Le variazioni climatiche allora erano naturali e accettate perché viste dal lato positivo dalla maggioranza delle persone che erano occupate in attività legate all’ambiente, gestito sempre tenendo conto di qualsiasi situazione che proponesse il tempo, perciò un territorio vincente preparato dall’uomo a difendersi dalle avversità anche estreme, mi stupisce il pensiero sulla gente, a partire dagli anni settanta, che non capiva più la natura anziché come da millenni aveva saputo rispettare, la natura non era più capita ed accettata dall’uomo.
Ritornando al pallone, sicuramente ne aveva dato di delusioni a chi, già troppo calato nel ruolo di imprenditore, aveva dimenticato di come sino a non molti anni prima gli uomini fossero abituati a considerare i fenomeni naturali come segni di un ambiente da interpretare, che si preoccupavano di amare e capire tanto da modificare i loro modi di vivere per non guastarlo, comprendendone le regole senza stravolgerle o tentare di cambiarle, consci così facendo di poterne ricevere sempre i frutti per vivere e non, come invece sembra stia accadendo in questi anni, di degradarlo.
L’inizio degli anni ’60 presentò due nuovi aspetti riguardanti la gestione del sistema lavoro, la fretta esasperata e il mero perseguimento del guadagno fine a se stesso, e qua entrano di nuovo in campo le qualità degli uomini, questa volta per confrontarsi nella figura di amministratori nelle nuove aziende.
In tutte le epoche, in ogni città, in ogni settore del lavoro, quando si instaurano realtà produttive importanti e durature, maturano classi di lavoratori, di imprenditori dalle quali emergono persone che si distinguono, rimanendo per sempre a emblema del periodo e dell’ambiente dove queste hanno operato ed espresso le loro capacità.
Ritengo per questo un mio dovere dedicare un ricordo a  C A R L O   S A L I N O, “Carluccio” per gli amici di Albissola e del Porto di Savona come anche una citazione a FRANCESCO ROETTO  di Vado Ligure, ultimo di una famiglia che ha dedicato tutta la vita al trasporto sia di persone come di merci.
Di Carlo Salino la sua intelligenza e la sua bontà ne facevano un uomo estremamente simpatico ed è per questo che è rimasto nei cuori di lo ha conosciuto, anche per l’immagine che aveva, dominando la scena più di vent’anni in quello che era, almeno per certi tipi importanti di merci come la cellulosa, il 1^ porto del Tirreno.
Da appassionato di camion ricordo quei magnifici autotreni, i FIAT 682 N2, rossi e con la grande scritta bianca a citare sia il cognome SALINO come il nome PORTO di SAVONA, questo come pubblicità della più grande azienda di autotrasporti operante sino a quei tempi in un porto italiano e Salino l’aveva costituita negli anni ’50 nel porto di Savona. Gli automezzi erano sempre perfetti prova ne sia che ancora oggi il Sig. Coseri, unico tappezziere rimasto a Savona di quei tempi, ci testimonia l’invito del Sig. Salino a ispezionare le gabine per provvedere alla manutenzione se casomai ve ne fosse stato bisogno, così come ne sono esempio i ganci cromati sul paraurti anteriore, questi equipaggiavano ben poche macchine, quelle che dovevano apparire d’elite, appartenenti ad un imprenditore che le sapeva apprezzare perciò farle lavorare rispettandole perché durassero.
Queste macchine erano un messaggio di quello che voleva un imprenditore alla Carlo Salino, primeggiare, vincere la concorrenza nazionale, usando sistemi innovativi come era a quei tempi la pubblicità, fare grande il porto e l’intera città.
Per quei tempi erano uniche le idee e i progetti di Salino, per la visione chiara e futuristica che aveva, ove indirizzare l’organizzazione del lavoro riguardante il trasporto su strada con i camion delle merci che dovevano sempre di più transitare nel porto di Savona. Sono riuscito a trovare qualche fotografia che mi aiuta a descrivere il cambiamento del sistema di lavoro che la realizzazione del progetto di Salino aveva prodotto nel porto in pochi anni, quelli compresi tra la fine dei ’50 e i primi del ’60.
L’idea era di offrire agli armatori per le loro navi un ormeggio breve e di qualità, un sevizio moderno che perciò le attirasse numerose, un servizio in grado di scaricarle velocemente e completamente della loro merce senza aspettare, come era uso sino a quegli anni, che il mercato richiedendone quantita’ minori a quelle ancora imbarcate, provvedesse lentamente a liberarle perché vuote potessero riprendere il mare per altri viaggi, altri noli. Salino, conoscendo i bisogni e le aspettative degli armatori sapeva cosa necessitava al porto di Savona per soddisfarli, perché loro con le loro navi scegliessero questo scalo creando lavoro per Savona e per tutti i territori che vi gravitavano intorno. Sperava per questo che Enti come il Comune, la Provincia e la Dogana risolvessero i problemi degli spazi indispensabili a parcheggiare gli automezzi, delle strade cittadine idonee a rendere scorrevole il traffico alle centinaia di autotreni che, ogni giorno, soddisfacevano la movimentazione delle merci in porto, dell’allargamento delle fasce orarie degli uffici della dogana per sdoganare più automezzi, dunque più merci, attirando in questo modo i commissionari facendosi preferire agli altri porti al fine di evitare soste troppo lunghe e quindi antieconomiche. Sperava anche di convincere le Istituzioni per avere grandi docks, capaci e attrezzati magazzini, pronti a ricevere quella merce che, se non scaricata, avrebbe bloccato le navi in rada e in porto facendo cadere le scelte degli armatori su altri scali che prima o poi avrebbero indovinato la strada giusta per raggiungere il futuro, privando il porto di quei traffici e, dunque, della possibilità di vincere la concorrenza. Di quelle opere tanto importanti non se ne realizzo neanche una, SALINO era solo ma non vinto, infatti riuscì con l’acquisto di un gran numero di rimorchi a scaricare lo stesso le navi in tempi brevi, mettendo la loro merce sui suoi rimorchi fungendo da docks. Poi con un lavoro continuo di trasbordo fuori dal porto, risolti i lunghi e difficoltosi problemi dello sdoganamento, dai rimorchi le merci passavano sui camion, reperiti dovunque, con un enorme lavoro per gestire i contatti con gli altri autotrasportatori, usando principalmente il telefono, apparecchio innovativo rispetto alle cartoline postali, lente ma comunemente adoperate per mantenere i rapporti commerciali fra le ditte di quei pionieristici anni. Con tutto questo riusciva a rendere appetibile il porto, soddisfacendo da una parte gli armatori e, dall’altra, gli imprenditori acquirenti della merce sbarcata, sempre pronta sui camion, li raggiungeva in poco tempo battendo la ormai vecchia e mal gestita ferrovia, troppo lenta per fare arrivare a destinazione la merce ordinata e impazientemente desiderata. Voglio soffermarmi ancora su come aveva organizzato il trasbordo dai “rimorchi-docks” ai camion, i trattori della ditta, anch’essi rossi con la scritta pubblicitaria bianca come gli automezzi, trainavano i rimorchi carichi sino sui piazzali in città, si muovevano veloci quasi a scappare da qualcosa o da qualcuno, mentre, invece, rendevano un forte servizio all’intera economia locale, è sempre difficile affermare una propria iniziativa sino a che questa non muova interessi che favoriscano e rendano partecipi anche altri potentati. Bisognava che SALINO la difendesse, la aiutasse a crescere sino a che questa, diventata matura, dimostrasse la sua validità, il suo funzionamento, così i piccoli trattori, arrivati sul piazzale accanto ai camion, si fermavano lasciando alle autogrù il compito di spostare il carico sugli autotreni, instancabilmente, in ogni momento, nella notte come nei giorni di festa, in piazzali occasionali come quello sotto il”PRIAMAR”, la fortezza sul mare di Savona, il lavoro procedeva ordinato e veloce riempiendo i cassoni sempre più numerosi, rispondevano agli appelli inviati dall’ufficio dei Salino. Questo quadro che giornalmente rappresentava il lavoro della ditta Salino, pensate, era anche diventato famoso grazie ad un fotoromanzo apparso su un giornale di gran successo all’epoca, il fotoromanzo aveva trasformato l’ufficio assieme a degli scorci delle zone del porto in un grande set cinematografico di cui facevano parte come attori personaggi della Ditta e del porto.
Avviato questo sistema, che ormai come un volano aveva una propria energia da garantirne il funzionamento, tra gli anni ‘60 e ’70 iniziava a  dismettere i suoi primi autotreni resi vetusti oltre che dall’uso anche dalle leggi, le quali modificavano per i pesi o per il numero degli assi la relativa portata, usando di questi ultimi solo poche motrici per le spole dal porto ai piazzali in città, sostituendoli con i nuovi autoarticolati, erano con la stessa livrea e costituivano una flotta di una quindicina di trattori stradali FIAT 682 T2, i quali offrivano a noi che li vedevamo passare sulla camionale, un colpo d’occhio da parata.
Furono così i primi mezzi formati da un trattore stradale e da un semirimorchio che arrivavano a Savona intestati alla stessa ditta in numero consistente. Carlo Salino scegliendo gli autoarticolati come al solito aveva già visto la strada che portava al futuro del trasporto su gomma, questo grazie anche alle esperienze precedentemente fatte all’estero, in Africa ed in America, le quali contribuirono ad aiutarlo nell’affinare la gestione della sua azienda a Savona.
E’ per tutto questo che intendo ricordare la figura di Carlo Salino, oltre che per la simpatia personale, per l’intelligente capacità intuitiva che gli permetteva di stare all’apice dell’autotrasporto, per aver saputo modernizzare e rendere più efficiente il sistema dei trasporti su strada, anche a Savona, senza comunque far mancare l’umanità dei rapporti tra le persone, che dev’essere sempre presente anche per un imprenditore tra i maggiori del settore com’era Lui.
Spostandomi un pochino più a ponente pochi giorni fa ho incontrato a Vado Ligure Francesco Roetto e mi sono subito accorto della vitalità e della forza che caratterizzano un uomo della sua tempra, tanta da infonderne anche a chi lo avvicina come è capitato a me.
Da bambino Roetto partecipava con la famiglia all’attività del trasporto di persone con le carrozze trainate dai cavalli, sulla linea da Vado Ligure a Spotorno e Noli, e dalla bella fotografia che ti appare entrando in casa capisci come già il padre fosse proprietario di una magnifica corriera tra le più moderne dell’epoca. Il racconto di Roetto prosegue parlando degli ultimi anni ’50, quando, acquistato un OM Leoncino, trasportava le bombole di ossigeno per una ditta presente a Vado Ligure, queste caricate sui vagoni, lo avevano destato a valutare la possibilità di prendere in appalto il trasporto dei carri ferroviari, infatti in quegli anni le tante fabbriche operanti in paese, come pure i cantieri delle demolizioni navali, richiedevano questo gravoso servizio, spostare i vagoni da e per lo scalo merci della stazione. Dev’essere stato arduo l’accaparrarsi la concessione dalle Ferrovie dello Stato Italiano, ma da un uomo come Roetto non ci si può che aspettarsi un finale scontato, infatti cominciò il trasporto dei carri ferroviari con un vissuto camion Anomag, ancora custodito gelosamente in uno dei suoi capannoni, questo fu un poco italianizzato, fu sostituito il motore impiegandone uno del FIAT 666 N7, il ponte della trasmissione demoltiplicato per avere più potenza fu scelto del 3/RO LANCIA e come cambio, seguendo il consiglio del meccanico di fiducia, venne utilizzato quello del LANCIA ESATAU 864.
Con questo automezzo e un carrello già appartenuto ad una nota ditta di trasporti speciali di Genova, Roetto iniziò l’attività nella quale divenne un leader. Dal racconto escono dei numeri, 5 trattori speciali modificati, da una ditta di Verona, dal camion FIAT 682 N2 dotati di una pesante zavorra ed equipaggiati di verricello per il carico dei pesanti vagoni sui carrelli, 24 carrelli che in seguito cercheremo di illustrarveli, 2.000 vagoni trasportato in un solo anno. Sono risultati raggiunti per la fiducia che un uomo come Lui infondeva a chi gli commissionava un trasporto, per la serietà e la completa disponibilità che con l’aiuto del suo dipendente Deo, a costo di sacrifici e fatiche, riusciva a mantenere sempre. E’ un piacere ascoltarlo quando parla della sua vita passata a capo della sua azienda, ma anche quando descrive i suoi mezzi, quei bassi rimorchi così speciali costruiti dalla Cometto di Cuneo o dalla Capperi di Lecco, prima armati di 16 ruote di gomma piena e senza dispositivo per la frenatura, interessante sentirlo spiegare del mestiere di caricarli e trainarli, perché difficili da manovrare in quanto dotati di tutti gli assi sterzanti e ancora più complicato spostarli in retromarcia e in spazi ristretti tanto che con facilità si poteva rompere la campana del gancio di traino. Ho potuto fotografare l’ultimo, usato sino a qualche decennio fa, fermo in stazione e rotto da un’imbragatura di una gru che nel tentativo di spostarlo gli ha piegato un braccio dello sterzo, quest’ultimo, il più moderno, ha 32 pneumatici accoppiati ed è provvisto di freni idraulici, ha una portata impressionante, limitata solo dalle regole del codice della strada. Ad ogni modo pesi tanto elevati non hanno mai creato soggezione a Roetto, li portava a spasso per tutte le strade, anche quelle strette cittadine, sino ad arrivare dentro le fabbriche che allora erano presenti anche nei centri abitati, ti spiega come entravano e d uscivano rasentando i cancelli completamente aperti, ma facendoti capire, però, quando dice “usavamo sempre molti tacchi per fermare il convoglio”, oppure “stavamo sempre molto attenti nelle manovre a spinta, quando trainavamo il vagone con il trattore per dargli l’abbrivio e farlo salire, con l’inerzia del moto, sul carrello frenato solo dai tacchi”, dunque non c’è mai stata confidenza con quei mezzi e con quelle manovre, per scongiurare qualsiasi danno o incidente e per questo un abbraccio forte a Francesco Roetto.
Dpo il commiato, ripensando alle sue parole, mi ha colpito la sua determinazione nel fare ancora progetti, come se i suoi mezzi più cari parcheggiati nel capannone, anche se ormai con i sedili molto impolverati, fossero sempre pronti ad uscire per trainare i vagoni, e tutto sommato è vero, perché chissà se con una decisione “alla Roetto”, li potremmo vedere ad un raduno organizzato dal C.I.C.S.
Allora arrivederci Francesco.
La mia passione è dedicata specialmente agli autocarri cassonati e adoperati per l’uso civile, non mi entusiasma parlare dei mezzi impiegati nelle guerre, magari come quelli requisiti alle ditte che per questo hanno dovuto interrompere il loro lavoro e cederli appunto per essere usati nei conflitti. Comunque penso sia necessario ricordare anche questo e, ritornando al discorso, finita la guerra ritrovarli acquistati per somme accessibili da intraprendenti camionisti, riverniciati semplicemente a pennello, ricominciare la loro attività come prima. Mi sovvengono i FIAT 626, trainanti i piccoli rimorchi a due assi, questi forse erano gli autotreni  di chi, privo di grandi risorse finanziarie ma animato da giovanile forza ed entusiasmo, tentasse di realizzare l’amato progetto di diventare autotrasportatore.
Questo mi sembra il momento per fermarmi ad una sosta dedicata ad una prima riflessione, direi che bisogna arrivare agli anni’70 per trovare la differenza tra chi, con lo spirito pionieristico, operaio nelle officine o autotrasportatore sulle strade, si realizzava di mostrando agli altri le capacità che aveva nel lavoro e chi, nel moderno mondo del lavoro, si impadroniva di un posto e con freddo calcolo, cercandolo di farlo rendere il più possibile, cercasse di procurarsi un guadagno, preoccupandosi di essere più ragioniere che camionista. Questo fine stava modificando il modo di comportarsi delle persone, dapprima sopportavano impegni e fatiche per onorare il mestiere, per la gioia nel soddisfarsi in quel che facevano, poi si trasformavano per stare sul mercato diventando avidi calcolatori, cercando di far rendere al massimo il proprio camion, guidati da leggi che subdolamente, piano piano, nel corso degli anni non avrebbero permesso più a chi era proprietario di un solo mezzo di poterci ricavare il necessario per viverci. Negli anni cinquanta un autotreno permetteva di ricavarci un reddito col quale potevano vivere anche tre persone, il proprietario e due autisti, e questo le persone presenti all’epoca me lo hanno confermato. Io con questo, da appassionato, non voglio assolutamente emettere nessun giudizio, perché bisognerebbe filosofare sulla qualità e sul sistema di vita che, in quegli anni in Italia, stava instaurandosi come il consumismo e altre scelte di politica nazionale economica. Possiamo citare film come DIVORZIO ALL’ITALIANA e altri ancora per dare un quadro della vita sino agli anni ’60 ma, anche condizionato dal sistema e stile di vita scelto dalla politica dei tempi, il trasporto con i camion avrebbe sempre avuto la sua ragione per esistere. Con gli anni ’70 le attenzioni alla gestione finanziaria delle ditte, come dicevamo, stavano prendendo il sopravvento su quelle del lavoro in se stesso, varavano in larga scala l’uso dell’autoarticolato, “il bilico”, grande frase di un amico da sempre camionista: ”finiva l’era delle trattorie e iniziava quella dei panini, battezzati con nomi diversi nei banchi degli autogrill”, penso che queste parole dicano tutto. Per me l’autoarticolato è stato l’automezzo che ha definitivamente accolto il “container”, il trattore e il semirimorchio hanno permesso di rendere praticabile l’indirizzo del moderno sistema di trasporto, non solo su strada ma coinvolgendo anche gli altri vettori sia per ferrovia che per mare. Veniva cambiato totalmente il modo col quale far viaggiare la merce, certamente questo non è avvenuto in giorni o mesi, ma sono stati sufficienti pochi anni per realizzare una trasformazione epocale, dopo un primo approccio servito per rendere la teoria praticabile, tutto il sistema si adeguò mandando in pensione i magnifici FIAT 690 N1 che, con la loro imponenza degli otto assi da ventidue pneumatici, erano stati le corazzate delle strade italiane di quel periodo. Non posso capire se fossero stati i cambiamenti, che il progresso nel mondo del trasporto su strada presentava, a indurre il legislatore ad adeguarne le norme, le leggi, oppure la politica legata a certi grandi potentati industriali, i quali premessero affinché questo sistema, o parte di esso, fosse costretto a configurarvisi, nel funzionare con nuove norme volute da poche ma potenti figure. Gli autoarticolati facevano risparmiare costi nella manodopera in quanto, alla metà degli anni settanta, bastava un autista a guidarli, oltreché lo scambio rapido tra la motrice e il semirimorchio per sostituirlo con un altro già carico, eseguito in pochi minuti dal solo autista del mezzo, rendeva praticamente continua il lavoro del “bilico”.
Veramente è il caso di soffermarci a riflettere su quale differenza del lavoro portò questo tipo di automezzo. Nel 1959 il codice della strada segnava una data importante nella sua storia perché fu rinnovata con significativi cambiamenti. Come già nel 1933 e nel 1939, rappresentarono a loro volta anch’essi due momenti importanti per il codice, in quanto sfoltivano la miriade di decreti emanati dal RE, raggruppandoli in norme che ben definivano l’assetto sia della sicurezza, riguardo la costruzione degli autoveicoli, come del traffico, escludendo quelli che risultavano obsoleti, non più confacenti con la situazione dell’epoca. Il codice nel 1959 si apprestava a regolamentare un parco circolante di autoveicoli molto numeroso rispetto a quello di soli dieci anni prima, questi moderni, capaci di prestazioni imparagonabili a quelle dei loro predecessori, erano realizzati con queste norme che soddisfacevano una nuova produzione dettata dalle industrie, perciò possiamo pensare ad uno sviluppo guidato non già dagli addetti del settore ma da chi aveva il potere di condizionare chi emanava le norme. Dai sogni di fine guerra, che protendevano la gente a sentirsi partecipe del futuro, all’occupazione nel trasporto su strada in ruoli sempre più anonimi per gli autotrasportatori, a rischio di incidenti, con vite passate in gabina a guidare, regole del codice non rispettate, infrante, per vincere la concorrenza e poter in quel modo realizzare il guadagno. Arrivare ad odiare quel mezzo che, come una sirena per Ulisse, da una bellissima illusione diventava nella realtà una piccola ed inospitale galera. Mi soffermerei a confrontare i compiti di un camionista del dopoguerra con quelli di uno degli anni ’80, le diversità del lavoro e del ruolo penso possano definirsi totali. Iniziando dai mezzi, la manutenzione forse già quello era un compito che richiedeva competenza e tempo da dedicarvici per più di un giorno alla settimana, in quanto il mezzo necessitava di ingrassare decine di parti e l’olio ancora minerale doveva essere scremato delle impurità, come anche la sostituzione dei filtri o il liquido di raffreddamento, non circolava in un circuito con vaso di espansione e non era altro che acqua, l’assistenza alle varie operazioni come per esempio il carico, la cura che richiedeva, come abbiamo detto precedentemente, ancora forse in modo limitato vista l’importanza di salvaguardare la merce, l’impegno che richiedeva la guida di quei mezzi arcaici e moderni nello stesso tempo, è un ossimoro ma lo ritengo utile per la descrizione degli autocarri di quei tempi, e tutte quelle attività che vedevano il camionista responsabile unico, dall’inizio alla fine del lavoro commissionato da un cliente che, alla lunga, conquistata la fiducia diventava un amico, complice nel lavoro. Tutto questo in un’ambiente dove immagino le relazioni personali avessero molta importanza, per la stima che il committente aveva nei confronti dell’autotrasportatore. Negli anni ’80 invece i compiti di un camionista lo vedevano ormai come un lavoratore specializzato in determinate mansioni, operante su automezzi quasi eterni e che non bisognano di grosse attenzioni per la manutenzione, dove la tecnologia e l’elettronica rendono inutili anche la sensibilità che necessitava nell’uso per esempio del cambio e le grandi potenze dei nuovi motori che non rendono problematica nessuna manovra  o percorsi in discesa o in salita, ma tutto questo in un ruolo anonimo, già calcolato sin neo tempi di lavoro o sosta o di disponibilità come cita anche il codice della strada, vede il lavoratore impegnato a combattere lo stress anziché le fatiche fisiche in una routine sfibrante più che altro sotto l’aspetto psicologico e nervoso, tutto questo lontano da ogni rapporto che si possa definire umano.
Fortunatamente ci sono i giovani che in ogni epoca, quando iniziano l’attività, mettono tutto di loro stessi per farsi sentire, prendono in mano questi mezzi nuovi, che nascono dalle catene di montaggio perfetti e uguali ma anche freddi, e subito ne decorano la cabina, aggiungono fari sul tetto e quant’altro possono trovare per personalizzarli, li dotano di VHF così li vivacizzano per trasmetterci il loro messaggio moderno di una forte e allegra presenza.
Questo capitolo dedicato al lavoro oltre agli argomenti trattati riguardanti le officine meccaniche e la movimentazione delle merci ha almeno ancora altri due argomenti molto importanti da ricordare, specialmente per noi italiani, le carrozzerie e il settore del trasporto delle persone sia per le corriere impegnate nei percorsi chiamati di linea sia per quelli impegnati nel turismo. Se già nelle cabine dei camion si poteva apprezzare lo stile, la classe, l’eleganza con la quale i battilama e i falegnami realizzavano quelle forme che ancora oggi si fanno ammirare, nelle corriere, dove il compito era reso molto più difficile per la grandezza e l’uso del mezzo, i problemi si moltiplicavano, la corriera dimostrava ciò che questi maestri riuscivano a raggiungere con il loro mestiere fondendo bellezza e soluzioni intelligentemente integrate per l’utilizzo che i turisti se non i viaggiatori avevano a disposizione. Pensare che un ingombro di quelle dimensioni fosse sagomato in modo da esprimere l’idea della leggerezza e dell’armonia tra le curve, gli spigoli e i pannelli di lamiera, presentandosi come un lavoro di alta sartoria che rivestiva, nascondendoli, il telaio e il grande motore diesel, tanto da inorgoglire nei viaggi i partecipanti. Così quegli artigiani-artisti ci dimostravano le loro capacità diventando con il loro lavoro conosciuti ed apprezzati in ogni paese, tanto da essere stimati e cercati tutt’oggi  dalle grandi case automobilistiche presenti nel mondo creando, qui in Italia, scuole che profondevano l’arte del design anche alle successive generazioni. Possiamo dire che lo stile e le forme degli autoveicoli italiani è sempre stata portatrice di grandi emozioni a chi si sofferma ad ammirarla, sono famosi i concorsi di stile come quello di Villa d’Este dove i vari designer gareggiavano per proporsi con idee e prototipi che marcassero la loro creazione, dove si vedevano primeggiare auto come la Lancia Astura o l’Alfa Romeo Monterosa stabilendo quasi sempre una supremazia sulle altre presentate dei paesi concorrenti. Noi italiani andiamo giustamente fieri per questo e ci viene spontaneo criticare certi automezzi che ci appaiono sgraziati, ci sembrano pesanti nelle loro linee, inespressivi nella loro personalità, fatti da uomini che riuscivano a costruirli solamente per lo scopo al quale erano destinati, senza pensare di renderli esteticamente presentabili alla vista di li scorgeva. Un plauso allora a chi è stato capace di forgiare macchine che hanno saputo scaturire emozioni e sentimenti dando ottimismo e gioia a noi che le ammiriamo. Ricordandoci del loro lavoro porgiamo un pensiero agli autisti di autobus e corriere, ci rivolgiamo sia a quelli della linea che a quelli del turismo. Chissà quante storie ci potrebbero raccontare. Il camionista e l’autista mestieri uguali e diversi, nello stesso ambiente fatto di mezzi pesanti e strade, uno a contatto con la gente si può riconoscere soddisfatto del proprio servizio rivolto ai passeggeri, seduti vicino a lui mentre guida, osservano attenti e curiosi il suo lavoro e il mezzo che con le sue forme e i suoi rumori li porta alle loro destinazioni, quanti bambini entusiasti di viaggiare sulle corriere hanno saputo appassionarsi vedendo tutto questo e rimanendone conquistati hanno sognato di diventare protagonisti a loro volta di questo mondo. Si racconta di un dialogo tra un camionista e un’autista di corriere, persone diverse per ruoli diversi, chi con i passeggeri chi con le merci, ma tutti e due concordi nel finire quel discorso con la stessa frase: ”con nessun altro lavoro cambierei questo mestiere”.
  
  








Tre esempi di autovetture prodotte dai Meccanici e Carrozzieri Italiani.


   


Questo e' un esempio di come una autovettura poteva essere riadattata per un uso commerciale,  FIAT 1.100 degli anni '50.
LANCIA 3 RO, metà anni '30, utilizzato per trasporto prodotti agricoli.
LANCIA ESATAU 108, fabbricato dalle Officine Lancia di Bolzano dal 1948, dapprima con motore 108 come questo esemplare, poi con motore 112, dal carico disposto manualmente con maestria capiamo quale era la merce commerciata in quei tempi, qui siamo a fine anni '40.
Porto di Savona primi anni '60, seminascosti dal rimorchio trainato dal trattore vediamo un FIAT 682 N2 con rimorchio Viberti a tre assi, allora la merce che arrivava con i "VAPORI"  aveva bisogno di lunghissime soste sulle navi o stoccata, proteggendola, per esempio su questi piccoli rimorchi parcheggiati a decine sui piazzali vicini al porto, con lettere o usando il telefono ancora raro negli uffici si cercava nei luoghi di produzione in altre regioni un eventuale acquirente.


Corriera della carrozzeria Calabrese, in Puglia, con motore FIAT 682, questi motori venivano adattati per essere installati adagiati solitamente di 90 gradi sotto il piano occupato dai passeggeri. 


Vediamo come gruppi di lavoratori, vestiti a festa, trascorressero in gruppo momenti di svago utilizzando i mezzi da loro prodotti, in basso tre camion utilizzati per il trasporto di motocicli nei luoghi di vendita.




La vita civile era molto povera, già l'alloggio e il vitto quando raggiunti erano soddisfazione di normalità,  dunque questi mezzi dapprima erano di utilizzo nell'esercito dove trovavano meccanici ed autieri.






Dall'alto verso il basso vediamo due FIAT 640 N, FIAT 125 e FIAT 682 N2, LANCIA ESATAU B,  LANCIA ESATAU  e due FIAT 682 N2 tre assi.

In colonna per ultimo scorgiamo il "BULLY" pulmino VOLKSWAGEN di 1.200 cc.

Le due fotografie sopra ci mostrano la corriera su meccanica OM TAURUS trasformata negozio viaggiante  per l'approvvigionamento di pezzi di ricambio per biciclette e motocicli, serviva tutto il ponente della riviera ligure, qui parcheggiata come sempre davanti al negozio di Savona negli anni '50.
Questa immagine è molto significativa in quanto ci mostra il "padroncino" con i due giovani autisti,  un automezzo con rimorchio, come quello raffigurato, poteva garantire un reddito annuo più che dignitoso sufficiente a tre persone.


Dall'alto verso il basso riconosciamo il FIAT 666 N7, LANCIA 3RO e un'altro FIAT 666 N7 con rimorchio due assi.


Alcuni esempi di corriere su meccanica LANCIA e FIAT.


Trattori per il traino dei carrelli che trasportavano i vagoni ferroviari, l'Anomag, residuato bellico, come molti Dodge americani, aveva parti importanti di meccanica sostituiti con pezzi italiani come spiegato nel testo di questo capitolo, immaginate il lavoro estremamente gravoso che doveva sopportare il convoglio garantendo l'assoluta affidabilità in quanto il minimo guasto avrebbe bloccato la circolazione stradale e trovare mezzi di soccorso idonei non sarebbe stato possibile.








E' con questi piccoli rimorchi, ormai non più utilizzati per la linea, che le merci venivano scaricate e  parcheggiate nei vari piazzali nelle vicinanze del porto in attesa degli acquirenti, in un secondo tempo, quando acquistate, venivano trasbordate sui camion a rimorchio che le portavano a destinazione.
Queste immagini ci mostrano come si stava modernizzando il lavoro nel porto di Savona,  affidando agli autotrasporti anziché alla ferrovia la movimentazione delle merci, di notte percorrendo strade non ancora dedicate, queste raggiungevano in poche ore senza ulteriori trasbordi le industrie di lavorazione.






L'unico e vecchio magazzino chiuso che proteggeva le merci nel porto di Savona, attrezzato  con un ponte  per movimentare le merci, qui vediamo un carro trainato da cavalli e vicino i binari con dei vagoni ferroviari, questi, movimentati con locomotive a vapore, raggiungevano le navi ormeggiate alle banchine oppure il magazzino dove venivano caricati e convogliati alla stazione per la partenza.



Scene dal porto di Savona anni '20-'30 xx secolo.

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