I meccanici delle officine
italiane con i loro racconti ci spiegavano come creavano i primi camion, le
prime corriere moderne, quei mezzi che si staccavano nettamente dalle sembianze
del carro trainato dagli animali e apparivano, con le loro carrozzerie dai
bordi arrotondati, attenti perciò già all’aerodinamica, automezzi progettati
intorno al loro cuore rombante, il motore.
Una fotografia è sicuramente
riduttiva rispetto a quelle parole così piene di esperienza, così precise e
così ricche di mestiere. Ci facevano capire come la teoria degli studi tecnici,
rivolta al miglioramento dei primi motori diesel e alla creazione delle prime
carrozzerie, che dovevano vestire i telai con le parti meccaniche, passasse nel
metallo del motore o nel legno e nelle lamiere della carrozzeria attraverso le
mani di quegli artigiani. Sono perfetti quegli automezzi nuovi che si vedevano
uscire dalle officine immortalati nelle fotografie, ma anche caldi, vitali ed
espressivi. Se guardi bene il frontale della cabina, se la osservi
attentamente, capisci dalla forma, dalle finiture, dalla disposizione dei fari,
dalla calandra alle volte personalizzata, di non essere di fronte od un oggetto
freddo ed inerte, ma forgiato, piegato, lavorato dalle mani degli uomini,
utilizzando tutta l’intelligenza, il raziocinio e l’esperienza che una persona
può impiegare per costruire un qualcosa a cui veramente crede, come se volesse
trasferire tutto il suo sapere e anche un poco di sé in quella macchina che poi
diventerà un autocarro. In quelle fabbriche, a quei tempi, gli occupati non
penso avessero velleità di mero arricchimento di denaro, bensì, immagino,
lavorassero con quell’impegno per la loro soddisfazione nel potersi esprimere
al meglio, di poter partecipare attivamente col saper fare qualcosa, paghi
della soddisfazione che abbiamo cercato di spiegare nel capitolo precedente
intitolato alla passione, già gratificati nell’occupare un posto che gli desse
onore nella società, senza il narcisismo dell’apparire ma con l’orgoglio del
poter fare. Solamente se pensiamo questo possiamo spiegarci come abbiano potuto
realizzare quei veicoli, cominciando in fin dei conti dalla carta bianca e
dalla materia prima. Mi piace immaginare le officine dove nascevano gli
autocarri e le corriere in modo diverso da quello che potevano essere invece le
fabbriche di automobili, intendo le vetture di serie, rivolte alla produzione
in grande quantità dove utilizzavano linee di produzione come la catena di
montaggio, mi sovviene il film “Tempi moderni” del premonitore Chaplin. Le
corriere e gli autocarri penso fossero costruiti in ambienti più partecipati
dagli addetti, sarei propenso a paragonarli a quelli dove si occupavano delle
automobili sportive, così originali, pronti ad accogliere qualsiasi idea che
potesse migliorarne l’uso per il quale erano destinati. Pensiamo a quante
soluzioni nuove, giorno dopo giorno, si doveva essere capaci a trovare per
rispondere a tutte le esigenze, le richieste che di mano in mano arrivavano
dall’industria e dal commercio, ora che questo si organizzava per la
distribuzione di tutti quei nuovi prodotti che dovevano raggiungere i mille
negozi aperti in ogni centro abitato, come anche per i trasporti delle persone,
sia nell’urbano che nel turismo, perciò si può immaginare una occupazione viva
e partecipe, che portandosi dietro l’atteggiamento di un popolo rustico,
abituato a trattare i prodotti della terra in agricoltura, cercava ora di far
nascere, di tirar su, degli oggetti che senza avere il dono della vita, come le
piante, avevano lo stesso il bisogno di apparire vivi e utili come tutto quello
che sino allora aveva sostentato le persone in paesaggio agreste.
Guardando le vecchie
fotografie e parlando con i protagonisti del tempo ho potuto cogliere un
aspetto allora frequente della vita di un automezzo, che riguardava in special
modo gli autoveicoli adibiti al trasporto di persone, l’uso delle
trasformazioni. Difatti sia le autovetture, che le corriere in particolare,
erano soggette a modifiche anche importanti della carrozzeria dopo che, uscite
nuove dalle fabbriche, venivano impiegate per il loro scopo di trasportare
persone sino a quando per la vetustà o per la obsolescenza, iniziavano a
diventare scomode o inospitali, prendevano allora la strada per le officine
specializzate nei lavori di carrozzeria, dove le trasformavano per renderle
utili negli usi più disparati, per soddisfare gli ordini commissionati dai loro
clienti. In effetti le corriere avendo il telaio ribassato permettevano di
carrozzare delle furgonature di elevata capacità, acquisendo una grande
volumetria interna, che poteva per esempio soddisfare una ditta di traslochi o
altre che avessero dovuto trasportare prodotti leggeri ma ingombranti. Per
citare un caso di trasformazione che riguardasse l’automobile mi ricordo una
Mercedes grigia con i pannelli di lamiera bianchi, risalente agli anni trenta e
trasformata in furgone coibentato negli anni cinquanta del dopoguerra, questa
trasportava stoccafisso norvegese importato e lavorato da una ditta di Albisola
che, con quel mezzo, provvedeva a consegnarlo a tutti i suoi clienti
dettaglianti. L’immagine nel vederla arrivare era imponente, infatti il lungo
cofano che racchiudeva il famoso motore, come anche tutti gli altri particolari
esterni a vista, ne affermavano la classe ma contemporaneamente suscitava
ambiguità per il fatto che per metà era auto di gran prestigio e per l’altra
furgone da trasporto e questo destava sia l’ammirazione nel vederla furgone che
l’umiliazione ricordandone il prestigioso passato. Così era normale per numerosa
altre attività acquistare a prezzo ridotto il mezzo, di qualità e robusto e
anche con un passato glorioso, per farli trasformare, adeguare, per il servizio
che da lì in poi avrebbero dovuto svolgere. Mi sovviene un altro ricordo che a
mio giudizio ritengo significativo per l’epoca, a esempio di un’attività che
provvedeva alla manutenzione delle numerose biciclette, magari motorizzate,
circolanti sulle strade dell’epoca. Protagonista il signor Gaggero Giovanni
Battista, questi finita l’esperienza come socio nella ditta SABAZIA di Savona,
produttrice di biciclette e cicli motorizzati col famoso motore modello
Mosquito della Fabbrica GARELLI, fedele al proprio lavoro, aprì un negozio di
vendita di biciclette e pezzi di ricambio. Ogni cosa a quei tempi era fabbricata
per durare a lungo e per questo, in aggiunta alle strade che solitamente erano
bianche, necessitava sempre di molta manutenzione, ciò rendeva necessaria anche
per le biciclette una fitta rete di meccanici e officine di riparazione. L’idea
geniale e innovativa, che ci tiene legati al discorso sulle trasformazioni
degli automezzi avuta da questo imprenditore, fu di acquistare una corriere a
fine servizio, motorizzata OM Taurus e farla modificare in modo che potesse
ospitare un magazzino mobile, così da potere servire e rifornire i suoi clienti
da Savona a Ventimiglia, i quali volevano avere l’opportunità di aggiustare
qualsiasi tipo di bicicletta senza muoversi dalla propria officina, guadagnando
tempo da dedicare al lavoro e, cosa ancora più importante, evitare di
accumulare nel loro magazzino quantità cospicue di pezzi di ricambio, i quali,
oltre a rappresentare un capitale temporaneamente inutilizzato, potevano
appunto non essere venduti se non ve ne fosse stata richiesta. Il signor
Gaggero GB, che ricordo anche come grande appassionato di montagna, insieme ai
suoi tre figli aveva centrato la risposta giusta al bisogno comune di un numero
elevato di riparatori. Questi, una volta alla settimana, lo aspettavano
puntualmente per potere consegnare aggiustate le biciclette ai loro clienti,
riconoscendolo arrivare col suo Taurus OM il quale, anziché essere demolito,
per altri vent’anni aveva continuato a lavorare come fedele aiutante di
quell’uomo che gli aveva ridato nuova vita.
Ad Albissola come a Finale
dopo la seconda guerra mondiale erano sorte delle prime attività produttrici di
bibite da destinare ai pochi locali pubblici della Riviera o ai pochi privati
consumatori, in particolare la ditta BRUNO di Parodi Stefano in Albisola,
proprietaria di una magnifica FIAT 1100 ELR cassonata, produceva e confezionava
bevande , dopo aver lavato e igienizzato manualmente le bottiglie, l’addetto le
collocava su un piccolo nastro trasportatore, posto all’inizio di una macchina
creata artigianalmente, la quale provvedeva a immettere una dose di sciroppo
della qualità desiderata e, continuando a trasportarle lungo questo percorso
obbligato, riempiva di acqua gassata il rimanente vuoto nella bottiglia sino ad
arrivare, nella parte finale del nastro, a chiuderle o con la sfera
galleggiante dentro di queste o con un più moderno tappo metallico. Il servizio
della ditta non finiva certo qui, perché per essere apprezzate dai primi
consumatori bisognava tenerle a bassa temperatura e questo si otteneva
tenendole nelle ghiacciaie, scatole di legno foderate di alluminio dove dentro
ci si depositava una quantità di ghiaccio prodotta da una ditta specializzata
di Savona, nominata appunto fabbrica del ghiaccio. Uno dei proprietari della
ditta Bruno perciò faceva la spola tra questa fabbrica e i locali di Albisola o
delle località limitrofe per rifornirli sia delle sue bibite in bottiglia, come
anche dei pezzi di ghiaccio rotti con un rudimentale attrezzo in dimensioni
adatte alle richieste dai suoi clienti, ad ogni fermata un nugolo di bambini, che
allora affollavano le strade, lo circondava intorno alla 1100 per prendere le
schegge di giaccio rimaste da quella rottura come per impadronirsi di un
qualcosa di nuovo e piacevole contro il caldo estivo. L’aumento del numero di
addetti che in poco tempo il settore della costruzione degli automezzi offriva,
e di conseguenza il fiorire di un sistema improntato al trasporto su gomma, con
tutti i relativi bisogni da assecondare per soddisfarlo, ci fa pensare alla
crescita di qualsiasi attività che facesse parte dell’intero sistema
produttivo. Le aziende avevano la tendenza se non ad espandersi ad adeguarsi
nel modo di lavorare, attrezzandosi con questi automezzi che piccoli, medi o grandi fossero,
miglioravano con le loro caratteristiche la gestione aziendale, dando anche
un’immagine di modernità nell’accostarsi ai prodotti e valorizzandoli.
Negli anni ’50 del dopoguerra
il sistema economico italiano si sviluppa e le aziende iniziano ad ingrandirsi
per soddisfare la domanda che arriva anche dall’estero, si parla a grandi
numeri, negli anni ’60 la televisione surclasserà ogni tipo di media dotando la
pubblicità di un potere mai avuto sino ad allora e diventando l’alleato
maggiore delle grandi imprese. Dunque oltre al mercato interno si comincia a guardare
le altre nazione e sempre più lontane come nuovi e importanti mercati di
sbocco, tutti gli imprenditori volevano raggiungere nuovi target e il guadagno
dovuto all’espansione crea una situazione finanziaria che arriverà poi a
staccarsi purtroppo dalle vera economia della nazione. Comunque in quel
ventennio rimane la qualità nella produzione a determinare l’impegno nelle
attività, compresa l’agricoltura che diminuendo di importanza a causa
dell’industria era lo stesso considerata basilare, perciò non erano le manovre
finanziarie fine a se stesse ad impegnare chi aveva disponibilità ma il saper
produrre innovando che creava ricchezza, cioè quel giusto bilanciamento tra le
idee della progettazione e le fatiche e i rischi della realizzazione, con la
contropartita di un prodotto ad alto valore aggiunto, il quale facendosi
apprezzare appunto anche all’estero lanciava l’economia italiana portando
ricchezza a tutta la nazione.
Il sistema di trasporto con i
nostri amici camion era il tassello fondamentale dell’allora moderno sistema
produttivo, coinvolgendo le industrie con le nascenti flotte di autocarri come
le piccole e medie aziende, con la conseguente occupazione per migliaia di
addetti sia nelle fabbriche dove nascevano gli autoveicoli come nei cantieri
che davano vita alla nuova rete stradale e autostradale la quale si stava
adeguando a sua volta, ma lentamente rispetto alla crescita economica, senza
offrire quelle necessarie infrastrutture che sapessero anticipare i tempi e far
arrivare nel giusto momento il futuro.
La provincia di Savona agli
inizi degli anni ’60, mi ricordo, aveva due soli brevi tronchi autostradali i
quali permettevano di raggiungere a est Genova Voltri e, a nord, il paese di
Priero ai piedi dell’Appennino dalla parte piemontese, erano tronchi
autostradali che si sviluppavano su di una sola carreggiata a doppio senso di
circolazione, dove si alternavano tratti di divieto di sorpasso con altri,
solitamente in salita, dove questo invece era permesso, creando però situazioni
di pericolo. Questo ci fa capire che purtroppo non tutti i settori
dell’economia avanzavano di pari passo ma, al contrario, ostacolandosi,
rallentavano lo sviluppo che avrebbe potuto proseguire su un fronte molto più
ampio, investendo e trascinando l’economia anche in zone del paese dove ancora
adesso esistono difficoltà.
Voltarsi indietro a guardare
come nel dopoguerra si trasformava il modo di lavorare, di pensare, di
rapportarsi al prossimo, benché lentamente, degli uomini di quei tempi ci fa
riflettere su come gli orizzonti per la gente si stessero allargando a nuovi e
futuristici scenari. Lo spirito moderno che invadeva tutto e tutti portava a
lasciarsi alle spalle il vecchio modo di vivere, dagli anni ’50 nuove
tecnologie erano offerte dapprima alle fasce sociali più alte ma, ben presto
queste si allargava a tutta la società che impaziente le desiderava.
I camionisti, testimoni di
quelle piccole realtà provinciali,
percorrendo tutta la nazione erano messaggeri di un ordine scaturito
dalla volontà di tutta la popolazione nel collaborare ad un progetto nuovo di
vita, comune a tutto il Paese, che facesse superare i campanilismi, difesi
anche con l’uso del dialetto col quale le comunità rimarcavano i confini del loro territorio, facendoli
diventare sempre più piccoli modificando le parole del dialetto locale nel
parlarlo “stretto” in correlazione appunto col loro piccolo territorio e questo
permetteva di comunicare solamente tra i membri della stessa comunità, perciò
iniziava a saper di vecchio quel tipo di comportamento, l’immagine che
scaturiva da certi atteggiamenti legati al passato relegava queste persone in
ambienti che non avrebbero avuto futuro. Se per una parte queste erano le prove
di una comunità dotata di tradizione, di esperienza e di cultura vincenti,
dall’altra rappresentavano la preclusione alla diversità e al dialogo verso
altre realtà con le quali scambiare lavoro e merci, se non anche cercare
sinergie fondamentali per crescere.
Dalle fotografie possiamo
comprendere chi poteva essere un autotrasportatore agli inizi della storia
dell’autotrasporto, cioè dagli anni ’30, lo paragonerei al comandante di un
veliero, come quelli che già tanti anni prima avevano solcato le vie d’acqua su
rotte difficili da seguire, per lo stesso fine e con la stessa responsabilità
rivolta alla merce trasportata, al mezzo conosciuto in ogni minimo particolare
e preoccupandosi di averlo sempre efficiente grazie ad una loro sapiente
manutenzione, conducendolo con qualsiasi clima avendo la sensibilità e la
capacità che garantivano la sicurezza delle persone e del carico a bordo.
L’ingegno di saperlo caricare di quella merce considerata effettivamente
preziosa, perché prodotta ancora in quantità limitate con sistemi artigianali.
Caricare un camion era un’arte che dava profonda soddisfazione, come per quei
velieri, questo valeva per ogni tipo di merce dalle più grezze alle più
lavorate perciò degne di un’imballaggio, se di piccole dimensioni queste
dovevano essere sistemate in modo da riempire il cassone con più pezzi
possibili ma equamente disposte, se invece pesanti di un solo pezzo allora la
disposizione doveva cercare l’equilibratura tra il ponte posteriore e l’asse
sterzante anteriore in modo da dare guidabilità e trazione all’automezzo
carico, doveva essere grande la soddisfazione alla partenza quando si
verificava il lavoro fatto dalle prestazioni alla guida. Così il carbone, come
la legna o i fusti e i bidoni per i prodotti liquidi, usavano anche le
sovrasponde per il fieno e le altre merci voluminose ma leggere e, se pensiamo
ai prodotti finiti, quelli che avevano in sé il grande valore aggiunto del
lavoro e della ricerca, allora il problema di come caricarli diventava
difficile, trovare una soluzione che li portasse integri a destinazione,
viaggiando sulle strade accidentate affrontate con le sospensioni a balestra
senza gli ammortizzatori cercando di sfruttare al massimo la portata del camion,
al quale sicuramente si chiedeva sempre più del dovuto.
Il camionista capiva
immediatamente se il carico fosse stato disposto adeguatamente sull’automezzo,
all’autista non erano ammesse ipocrisie nei confronti del suo stato d’animo, infatti
se la merce avesse sbilanciato il camion avrebbe condizionato per tutto il viaggio
il conducente nella guida, procurandogli la sofferenza di chi subisce nella
permanenza di un piccolo luogo angusto, come diventa in quelle condizioni la
gabina di guida, il pericolo di guidare un autotreno caricato di enormi pesi
che uniti alla velocità e alle condizioni della strada, magari di notte con
neve e ghiaccio e nebbia, non rendevano più affidabile il camion ai comandi di
chi lo guidava. Uomini specializzati dedicavano lavoro e fatica per caricare il
cassone, ogni prodotto necessitava di una disposizione particolarmente accurata
quando lo si disponeva nell’autocarro, utilizzando imballaggi naturali come la
paglia, il fieno o il legno e finito questo primo uso venivano riciclati per
altri impieghi più consoni alle loro caratteristiche.
Un amico autotrasportatore,
un padroncino, mi ha fatto capire come negli anni ’50 le ditte erano già
attente alle questioni finanziarie, infatti la nascente competitività commerciale
portava gli imprenditori a dover essere scrupolosi nel calcolare i costi delle
loro aziende perciò anche per gli autotrasportatori tutto doveva essere
calcolato e ottimizzato. Racconto a questo proposito la delusione di quei
camionisti che all’entrata del porto di Savona, nelle giornate piovose, avevano
nello scorgere un segnale piazzato sul muro accanto alla finestra degli uffici
della compagnia Pippo Rebagliati, quella dei “Camalli”, vicino ai cancelli del
porto, che si occupava della movimentazione a mano di tutte le merci caricate e
scaricate nel porto, luogo di grande opportunità di lavoro per la città, qui le
navi ancora di piccole dimensioni approdavano cariche di molti tipi di merce,
questi carichi non erano protetti da nessun tipo di imballaggio, dunque erano
soggetti all’inclemenza del tempo atmosferico. Era la manualità di questi
camalli che sapeva disporre il carico, pezzo per pezzo, nel cassone del camion
come nella stiva della nave o nei carri ferroviari, la merce era passata da un
vettore all’altro a mano perciò questa era vulnerabile al tempo e quindi era
necessaria l’interruzione della movimentazione quando pioveva o magari
solamente minacciava di pioggia affinché non si deteriorasse. Per questo la
Compagnia dei Portuali, con i suoi tecnici, aveva escogitato un segnale molto
originale e di indubbia interpretazione, un pallone di cuoio infilzato in
un’asta metallica fissata con due staffe in modo verticale parallela al muro,
se il pallone era in basso gli autisti sapevano che i traffici erano regolari,
invece se il segnale era posizionato a metà dell’asta indicava che le
condizioni meteorologiche aprivano un periodo di due ore di attesa per decidere
se interrompere o riprendere le operazioni di carico e scarico, se infine il
pallone era nella posizione più alta dell’asta non si muoveva nessun tipo di
merce sino al ristabilimento del clima. Immaginiamoci i commenti e le
interpretazioni di quelli che vedendolo in alto e già avevano programmato il
calendario dei loro viaggi, prendendo accordi con le varie fabbriche o con gli
agenti spedizionieri committenti di ordini per il trasporto di cose che avevano
fretta di essere vendute, avevano fretta di soddisfare bisogni, che avevano il
potere di procurare guadagno, soldi. Tutti calcoli e argomentazioni studiati in
ambienti chiusi come uffici e scagni, dentro ad appartamenti di palazzi,
ambienti artificiali, calcoli teorici e ragionamenti fatti senza tener conto
del clima che ancora condizionava il lavoro dell’uomo, il tempo meteorologico
fattore condizionante e decisivo sia per l’agricoltura che per l’allevamento,
negli orti come nei pascoli a dettare i ritmi di lavoro. Le variazioni
climatiche allora erano naturali e accettate perché viste dal lato positivo
dalla maggioranza delle persone che erano occupate in attività legate
all’ambiente, gestito sempre tenendo conto di qualsiasi situazione che
proponesse il tempo, perciò un territorio vincente preparato dall’uomo a
difendersi dalle avversità anche estreme, mi stupisce il pensiero sulla gente,
a partire dagli anni settanta, che non capiva più la natura anziché come da
millenni aveva saputo rispettare, la natura non era più capita ed accettata
dall’uomo.
Ritornando al pallone,
sicuramente ne aveva dato di delusioni a chi, già troppo calato nel ruolo di imprenditore,
aveva dimenticato di come sino a non molti anni prima gli uomini fossero
abituati a considerare i fenomeni naturali come segni di un ambiente da
interpretare, che si preoccupavano di amare e capire tanto da modificare i loro
modi di vivere per non guastarlo, comprendendone le regole senza stravolgerle o
tentare di cambiarle, consci così facendo di poterne ricevere sempre i frutti
per vivere e non, come invece sembra stia accadendo in questi anni, di
degradarlo.
L’inizio degli anni ’60
presentò due nuovi aspetti riguardanti la gestione del sistema lavoro, la
fretta esasperata e il mero perseguimento del guadagno fine a se stesso, e qua
entrano di nuovo in campo le qualità degli uomini, questa volta per
confrontarsi nella figura di amministratori nelle nuove aziende.
In tutte le epoche, in ogni
città, in ogni settore del lavoro, quando si instaurano realtà produttive
importanti e durature, maturano classi di lavoratori, di imprenditori dalle
quali emergono persone che si distinguono, rimanendo per sempre a emblema del
periodo e dell’ambiente dove queste hanno operato ed espresso le loro capacità.
Ritengo per questo un mio
dovere dedicare un ricordo a C A R L
O S A L I N O, “Carluccio” per gli
amici di Albissola e del Porto di Savona come anche una citazione a FRANCESCO
ROETTO di Vado Ligure, ultimo di una
famiglia che ha dedicato tutta la vita al trasporto sia di persone come di
merci.
Di Carlo Salino la sua
intelligenza e la sua bontà ne facevano un uomo estremamente simpatico ed è per
questo che è rimasto nei cuori di lo ha conosciuto, anche per l’immagine che
aveva, dominando la scena più di vent’anni in quello che era, almeno per certi
tipi importanti di merci come la cellulosa, il 1^ porto del Tirreno.
Da appassionato di camion
ricordo quei magnifici autotreni, i FIAT 682 N2, rossi e con la grande scritta
bianca a citare sia il cognome SALINO come il nome PORTO di SAVONA, questo come
pubblicità della più grande azienda di autotrasporti operante sino a quei tempi
in un porto italiano e Salino l’aveva costituita negli anni ’50 nel porto di
Savona. Gli automezzi erano sempre perfetti prova ne sia che ancora oggi il
Sig. Coseri, unico tappezziere rimasto a Savona di quei tempi, ci testimonia
l’invito del Sig. Salino a ispezionare le gabine per provvedere alla
manutenzione se casomai ve ne fosse stato bisogno, così come ne sono esempio i
ganci cromati sul paraurti anteriore, questi equipaggiavano ben poche macchine,
quelle che dovevano apparire d’elite, appartenenti ad un imprenditore che le
sapeva apprezzare perciò farle lavorare rispettandole perché durassero.
Queste macchine erano un
messaggio di quello che voleva un imprenditore alla Carlo Salino, primeggiare,
vincere la concorrenza nazionale, usando sistemi innovativi come era a quei
tempi la pubblicità, fare grande il porto e l’intera città.
Per quei tempi erano uniche
le idee e i progetti di Salino, per la visione chiara e futuristica che aveva,
ove indirizzare l’organizzazione del lavoro riguardante il trasporto su strada
con i camion delle merci che dovevano sempre di più transitare nel porto di
Savona. Sono riuscito a trovare qualche fotografia che mi aiuta a descrivere il
cambiamento del sistema di lavoro che la realizzazione del progetto di Salino
aveva prodotto nel porto in pochi anni, quelli compresi tra la fine dei ’50 e i
primi del ’60.
L’idea era di offrire agli
armatori per le loro navi un ormeggio breve e di qualità, un sevizio moderno
che perciò le attirasse numerose, un servizio in grado di scaricarle
velocemente e completamente della loro merce senza aspettare, come era uso sino
a quegli anni, che il mercato richiedendone quantita’ minori a quelle ancora
imbarcate, provvedesse lentamente a liberarle perché vuote potessero riprendere
il mare per altri viaggi, altri noli. Salino, conoscendo i bisogni e le
aspettative degli armatori sapeva cosa necessitava al porto di Savona per
soddisfarli, perché loro con le loro navi scegliessero questo scalo creando
lavoro per Savona e per tutti i territori che vi gravitavano intorno. Sperava
per questo che Enti come il Comune, la Provincia e la Dogana risolvessero i
problemi degli spazi indispensabili a parcheggiare gli automezzi, delle strade
cittadine idonee a rendere scorrevole il traffico alle centinaia di autotreni
che, ogni giorno, soddisfacevano la movimentazione delle merci in porto,
dell’allargamento delle fasce orarie degli uffici della dogana per sdoganare
più automezzi, dunque più merci, attirando in questo modo i commissionari
facendosi preferire agli altri porti al fine di evitare soste troppo lunghe e
quindi antieconomiche. Sperava anche di convincere le Istituzioni per avere
grandi docks, capaci e attrezzati magazzini, pronti a ricevere quella merce
che, se non scaricata, avrebbe bloccato le navi in rada e in porto facendo
cadere le scelte degli armatori su altri scali che prima o poi avrebbero
indovinato la strada giusta per raggiungere il futuro, privando il porto di
quei traffici e, dunque, della possibilità di vincere la concorrenza. Di quelle
opere tanto importanti non se ne realizzo neanche una, SALINO era solo ma non
vinto, infatti riuscì con l’acquisto di un gran numero di rimorchi a scaricare
lo stesso le navi in tempi brevi, mettendo la loro merce sui suoi rimorchi
fungendo da docks. Poi con un lavoro continuo di trasbordo fuori dal porto,
risolti i lunghi e difficoltosi problemi dello sdoganamento, dai rimorchi le
merci passavano sui camion, reperiti dovunque, con un enorme lavoro per gestire
i contatti con gli altri autotrasportatori, usando principalmente il telefono,
apparecchio innovativo rispetto alle cartoline postali, lente ma comunemente
adoperate per mantenere i rapporti commerciali fra le ditte di quei
pionieristici anni. Con tutto questo riusciva a rendere appetibile il porto,
soddisfacendo da una parte gli armatori e, dall’altra, gli imprenditori
acquirenti della merce sbarcata, sempre pronta sui camion, li raggiungeva in
poco tempo battendo la ormai vecchia e mal gestita ferrovia, troppo lenta per
fare arrivare a destinazione la merce ordinata e impazientemente desiderata.
Voglio soffermarmi ancora su come aveva organizzato il trasbordo dai
“rimorchi-docks” ai camion, i trattori della ditta, anch’essi rossi con la
scritta pubblicitaria bianca come gli automezzi, trainavano i rimorchi carichi
sino sui piazzali in città, si muovevano veloci quasi a scappare da qualcosa o
da qualcuno, mentre, invece, rendevano un forte servizio all’intera economia
locale, è sempre difficile affermare una propria iniziativa sino a che questa
non muova interessi che favoriscano e rendano partecipi anche altri potentati.
Bisognava che SALINO la difendesse, la aiutasse a crescere sino a che questa,
diventata matura, dimostrasse la sua validità, il suo funzionamento, così i piccoli
trattori, arrivati sul piazzale accanto ai camion, si fermavano lasciando alle
autogrù il compito di spostare il carico sugli autotreni, instancabilmente, in
ogni momento, nella notte come nei giorni di festa, in piazzali occasionali
come quello sotto il”PRIAMAR”, la fortezza sul mare di Savona, il lavoro
procedeva ordinato e veloce riempiendo i cassoni sempre più numerosi,
rispondevano agli appelli inviati dall’ufficio dei Salino. Questo quadro che
giornalmente rappresentava il lavoro della ditta Salino, pensate, era anche
diventato famoso grazie ad un fotoromanzo apparso su un giornale di gran
successo all’epoca, il fotoromanzo aveva trasformato l’ufficio assieme a degli
scorci delle zone del porto in un grande set cinematografico di cui facevano parte
come attori personaggi della Ditta e del porto.
Avviato questo sistema, che ormai
come un volano aveva una propria energia da garantirne il funzionamento, tra
gli anni ‘60 e ’70 iniziava a dismettere
i suoi primi autotreni resi vetusti oltre che dall’uso anche dalle leggi, le
quali modificavano per i pesi o per il numero degli assi la relativa portata,
usando di questi ultimi solo poche motrici per le spole dal porto ai piazzali
in città, sostituendoli con i nuovi autoarticolati, erano con la stessa livrea
e costituivano una flotta di una quindicina di trattori stradali FIAT 682 T2, i
quali offrivano a noi che li vedevamo passare sulla camionale, un colpo
d’occhio da parata.
Furono così i primi mezzi
formati da un trattore stradale e da un semirimorchio che arrivavano a Savona
intestati alla stessa ditta in numero consistente. Carlo Salino scegliendo gli
autoarticolati come al solito aveva già visto la strada che portava al futuro
del trasporto su gomma, questo grazie anche alle esperienze precedentemente fatte
all’estero, in Africa ed in America, le quali contribuirono ad aiutarlo
nell’affinare la gestione della sua azienda a Savona.
E’ per tutto questo che
intendo ricordare la figura di Carlo Salino, oltre che per la simpatia
personale, per l’intelligente capacità intuitiva che gli permetteva di stare
all’apice dell’autotrasporto, per aver saputo modernizzare e rendere più
efficiente il sistema dei trasporti su strada, anche a Savona, senza comunque
far mancare l’umanità dei rapporti tra le persone, che dev’essere sempre
presente anche per un imprenditore tra i maggiori del settore com’era Lui.
Spostandomi un pochino più a
ponente pochi giorni fa ho incontrato a Vado Ligure Francesco Roetto e mi sono
subito accorto della vitalità e della forza che caratterizzano un uomo della
sua tempra, tanta da infonderne anche a chi lo avvicina come è capitato a me.
Da bambino Roetto partecipava
con la famiglia all’attività del trasporto di persone con le carrozze trainate
dai cavalli, sulla linea da Vado Ligure a Spotorno e Noli, e dalla bella
fotografia che ti appare entrando in casa capisci come già il padre fosse
proprietario di una magnifica corriera tra le più moderne dell’epoca. Il
racconto di Roetto prosegue parlando degli ultimi anni ’50, quando, acquistato
un OM Leoncino, trasportava le bombole di ossigeno per una ditta presente a
Vado Ligure, queste caricate sui vagoni, lo avevano destato a valutare la
possibilità di prendere in appalto il trasporto dei carri ferroviari, infatti
in quegli anni le tante fabbriche operanti in paese, come pure i cantieri delle
demolizioni navali, richiedevano questo gravoso servizio, spostare i vagoni da
e per lo scalo merci della stazione. Dev’essere stato arduo l’accaparrarsi la
concessione dalle Ferrovie dello Stato Italiano, ma da un uomo come Roetto non
ci si può che aspettarsi un finale scontato, infatti cominciò il trasporto dei
carri ferroviari con un vissuto camion Anomag, ancora custodito gelosamente in
uno dei suoi capannoni, questo fu un poco italianizzato, fu sostituito il
motore impiegandone uno del FIAT 666 N7, il ponte della trasmissione
demoltiplicato per avere più potenza fu scelto del 3/RO LANCIA e come cambio,
seguendo il consiglio del meccanico di fiducia, venne utilizzato quello del
LANCIA ESATAU 864.
Con questo automezzo e un
carrello già appartenuto ad una nota ditta di trasporti speciali di Genova,
Roetto iniziò l’attività nella quale divenne un leader. Dal racconto escono dei
numeri, 5 trattori speciali modificati, da una ditta di Verona, dal camion FIAT
682 N2 dotati di una pesante zavorra ed equipaggiati di verricello per il
carico dei pesanti vagoni sui carrelli, 24 carrelli che in seguito cercheremo
di illustrarveli, 2.000 vagoni trasportato in un solo anno. Sono risultati
raggiunti per la fiducia che un uomo come Lui infondeva a chi gli commissionava
un trasporto, per la serietà e la completa disponibilità che con l’aiuto del
suo dipendente Deo, a costo di sacrifici e fatiche, riusciva a mantenere
sempre. E’ un piacere ascoltarlo quando parla della sua vita passata a capo
della sua azienda, ma anche quando descrive i suoi mezzi, quei bassi rimorchi
così speciali costruiti dalla Cometto di Cuneo o dalla Capperi di Lecco, prima
armati di 16 ruote di gomma piena e senza dispositivo per la frenatura,
interessante sentirlo spiegare del mestiere di caricarli e trainarli, perché
difficili da manovrare in quanto dotati di tutti gli assi sterzanti e ancora
più complicato spostarli in retromarcia e in spazi ristretti tanto che con
facilità si poteva rompere la campana del gancio di traino. Ho potuto
fotografare l’ultimo, usato sino a qualche decennio fa, fermo in stazione e
rotto da un’imbragatura di una gru che nel tentativo di spostarlo gli ha
piegato un braccio dello sterzo, quest’ultimo, il più moderno, ha 32 pneumatici
accoppiati ed è provvisto di freni idraulici, ha una portata impressionante,
limitata solo dalle regole del codice della strada. Ad ogni modo pesi tanto
elevati non hanno mai creato soggezione a Roetto, li portava a spasso per tutte
le strade, anche quelle strette cittadine, sino ad arrivare dentro le fabbriche
che allora erano presenti anche nei centri abitati, ti spiega come entravano e
d uscivano rasentando i cancelli completamente aperti, ma facendoti capire,
però, quando dice “usavamo sempre molti tacchi per fermare il convoglio”,
oppure “stavamo sempre molto attenti nelle manovre a spinta, quando trainavamo
il vagone con il trattore per dargli l’abbrivio e farlo salire, con l’inerzia
del moto, sul carrello frenato solo dai tacchi”, dunque non c’è mai stata
confidenza con quei mezzi e con quelle manovre, per scongiurare qualsiasi danno
o incidente e per questo un abbraccio forte a Francesco Roetto.
Dpo il commiato, ripensando
alle sue parole, mi ha colpito la sua determinazione nel fare ancora progetti,
come se i suoi mezzi più cari parcheggiati nel capannone, anche se ormai con i
sedili molto impolverati, fossero sempre pronti ad uscire per trainare i
vagoni, e tutto sommato è vero, perché chissà se con una decisione “alla
Roetto”, li potremmo vedere ad un raduno organizzato dal C.I.C.S.
Allora arrivederci Francesco.
La mia passione è dedicata
specialmente agli autocarri cassonati e adoperati per l’uso civile, non mi
entusiasma parlare dei mezzi impiegati nelle guerre, magari come quelli
requisiti alle ditte che per questo hanno dovuto interrompere il loro lavoro e
cederli appunto per essere usati nei conflitti. Comunque penso sia necessario
ricordare anche questo e, ritornando al discorso, finita la guerra ritrovarli
acquistati per somme accessibili da intraprendenti camionisti, riverniciati
semplicemente a pennello, ricominciare la loro attività come prima. Mi
sovvengono i FIAT 626, trainanti i piccoli rimorchi a due assi, questi forse
erano gli autotreni di chi, privo di
grandi risorse finanziarie ma animato da giovanile forza ed entusiasmo,
tentasse di realizzare l’amato progetto di diventare autotrasportatore.
Questo mi sembra il momento
per fermarmi ad una sosta dedicata ad una prima riflessione, direi che bisogna
arrivare agli anni’70 per trovare la differenza tra chi, con lo spirito
pionieristico, operaio nelle officine o autotrasportatore sulle strade, si
realizzava di mostrando agli altri le capacità che aveva nel lavoro e chi, nel
moderno mondo del lavoro, si impadroniva di un posto e con freddo calcolo,
cercandolo di farlo rendere il più possibile, cercasse di procurarsi un
guadagno, preoccupandosi di essere più ragioniere che camionista. Questo fine
stava modificando il modo di comportarsi delle persone, dapprima sopportavano
impegni e fatiche per onorare il mestiere, per la gioia nel soddisfarsi in quel
che facevano, poi si trasformavano per stare sul mercato diventando avidi
calcolatori, cercando di far rendere al massimo il proprio camion, guidati da
leggi che subdolamente, piano piano, nel corso degli anni non avrebbero
permesso più a chi era proprietario di un solo mezzo di poterci ricavare il
necessario per viverci. Negli anni cinquanta un autotreno permetteva di
ricavarci un reddito col quale potevano vivere anche tre persone, il proprietario
e due autisti, e questo le persone presenti all’epoca me lo hanno confermato.
Io con questo, da appassionato, non voglio assolutamente emettere nessun
giudizio, perché bisognerebbe filosofare sulla qualità e sul sistema di vita
che, in quegli anni in Italia, stava instaurandosi come il consumismo e altre
scelte di politica nazionale economica. Possiamo citare film come DIVORZIO
ALL’ITALIANA e altri ancora per dare un quadro della vita sino agli anni ’60
ma, anche condizionato dal sistema e stile di vita scelto dalla politica dei
tempi, il trasporto con i camion avrebbe sempre avuto la sua ragione per
esistere. Con gli anni ’70 le attenzioni alla gestione finanziaria delle ditte,
come dicevamo, stavano prendendo il sopravvento su quelle del lavoro in se
stesso, varavano in larga scala l’uso dell’autoarticolato, “il bilico”, grande
frase di un amico da sempre camionista: ”finiva l’era delle trattorie e
iniziava quella dei panini, battezzati con nomi diversi nei banchi degli
autogrill”, penso che queste parole dicano tutto. Per me l’autoarticolato è
stato l’automezzo che ha definitivamente accolto il “container”, il trattore e
il semirimorchio hanno permesso di rendere praticabile l’indirizzo del moderno
sistema di trasporto, non solo su strada ma coinvolgendo anche gli altri
vettori sia per ferrovia che per mare. Veniva cambiato totalmente il modo col
quale far viaggiare la merce, certamente questo non è avvenuto in giorni o
mesi, ma sono stati sufficienti pochi anni per realizzare una trasformazione epocale,
dopo un primo approccio servito per rendere la teoria praticabile, tutto il
sistema si adeguò mandando in pensione i magnifici FIAT 690 N1 che, con la loro
imponenza degli otto assi da ventidue pneumatici, erano stati le corazzate
delle strade italiane di quel periodo. Non posso capire se fossero stati i
cambiamenti, che il progresso nel mondo del trasporto su strada presentava, a
indurre il legislatore ad adeguarne le norme, le leggi, oppure la politica
legata a certi grandi potentati industriali, i quali premessero affinché questo
sistema, o parte di esso, fosse costretto a configurarvisi, nel funzionare con
nuove norme volute da poche ma potenti figure. Gli autoarticolati facevano
risparmiare costi nella manodopera in quanto, alla metà degli anni settanta,
bastava un autista a guidarli, oltreché lo scambio rapido tra la motrice e il
semirimorchio per sostituirlo con un altro già carico, eseguito in pochi minuti
dal solo autista del mezzo, rendeva praticamente continua il lavoro del
“bilico”.
Veramente è il caso di
soffermarci a riflettere su quale differenza del lavoro portò questo tipo di
automezzo. Nel 1959 il codice della strada segnava una data importante nella
sua storia perché fu rinnovata con significativi cambiamenti. Come già nel 1933
e nel 1939, rappresentarono a loro volta anch’essi due momenti importanti per
il codice, in quanto sfoltivano la miriade di decreti emanati dal RE,
raggruppandoli in norme che ben definivano l’assetto sia della sicurezza,
riguardo la costruzione degli autoveicoli, come del traffico, escludendo quelli
che risultavano obsoleti, non più confacenti con la situazione dell’epoca. Il
codice nel 1959 si apprestava a regolamentare un parco circolante di
autoveicoli molto numeroso rispetto a quello di soli dieci anni prima, questi
moderni, capaci di prestazioni imparagonabili a quelle dei loro predecessori,
erano realizzati con queste norme che soddisfacevano una nuova produzione
dettata dalle industrie, perciò possiamo pensare ad uno sviluppo guidato non
già dagli addetti del settore ma da chi aveva il potere di condizionare chi
emanava le norme. Dai sogni di fine guerra, che protendevano la gente a
sentirsi partecipe del futuro, all’occupazione nel trasporto su strada in ruoli
sempre più anonimi per gli autotrasportatori, a rischio di incidenti, con vite
passate in gabina a guidare, regole del codice non rispettate, infrante, per
vincere la concorrenza e poter in quel modo realizzare il guadagno. Arrivare ad
odiare quel mezzo che, come una sirena per Ulisse, da una bellissima illusione
diventava nella realtà una piccola ed inospitale galera. Mi soffermerei a
confrontare i compiti di un camionista del dopoguerra con quelli di uno degli
anni ’80, le diversità del lavoro e del ruolo penso possano definirsi totali.
Iniziando dai mezzi, la manutenzione forse già quello era un compito che
richiedeva competenza e tempo da dedicarvici per più di un giorno alla
settimana, in quanto il mezzo necessitava di ingrassare decine di parti e
l’olio ancora minerale doveva essere scremato delle impurità, come anche la
sostituzione dei filtri o il liquido di raffreddamento, non circolava in un
circuito con vaso di espansione e non era altro che acqua, l’assistenza alle
varie operazioni come per esempio il carico, la cura che richiedeva, come abbiamo
detto precedentemente, ancora forse in modo limitato vista l’importanza di
salvaguardare la merce, l’impegno che richiedeva la guida di quei mezzi arcaici
e moderni nello stesso tempo, è un ossimoro ma lo ritengo utile per la
descrizione degli autocarri di quei tempi, e tutte quelle attività che vedevano
il camionista responsabile unico, dall’inizio alla fine del lavoro
commissionato da un cliente che, alla lunga, conquistata la fiducia diventava
un amico, complice nel lavoro. Tutto questo in un’ambiente dove immagino le
relazioni personali avessero molta importanza, per la stima che il committente
aveva nei confronti dell’autotrasportatore. Negli anni ’80 invece i compiti di
un camionista lo vedevano ormai come un lavoratore specializzato in determinate
mansioni, operante su automezzi quasi eterni e che non bisognano di grosse
attenzioni per la manutenzione, dove la tecnologia e l’elettronica rendono
inutili anche la sensibilità che necessitava nell’uso per esempio del cambio e
le grandi potenze dei nuovi motori che non rendono problematica nessuna
manovra o percorsi in discesa o in
salita, ma tutto questo in un ruolo anonimo, già calcolato sin neo tempi di
lavoro o sosta o di disponibilità come cita anche il codice della strada, vede
il lavoratore impegnato a combattere lo stress anziché le fatiche fisiche in
una routine sfibrante più che altro sotto l’aspetto psicologico e nervoso,
tutto questo lontano da ogni rapporto che si possa definire umano.
Fortunatamente ci sono i
giovani che in ogni epoca, quando iniziano l’attività, mettono tutto di loro
stessi per farsi sentire, prendono in mano questi mezzi nuovi, che nascono
dalle catene di montaggio perfetti e uguali ma anche freddi, e subito ne
decorano la cabina, aggiungono fari sul tetto e quant’altro possono trovare per
personalizzarli, li dotano di VHF così li vivacizzano per trasmetterci il loro
messaggio moderno di una forte e allegra presenza.
Questo capitolo dedicato al
lavoro oltre agli argomenti trattati riguardanti le officine meccaniche e la movimentazione
delle merci ha almeno ancora altri due argomenti molto importanti da ricordare,
specialmente per noi italiani, le carrozzerie e il settore del trasporto delle
persone sia per le corriere impegnate nei percorsi chiamati di linea sia per
quelli impegnati nel turismo. Se già nelle cabine dei camion si poteva
apprezzare lo stile, la classe, l’eleganza con la quale i battilama e i
falegnami realizzavano quelle forme che ancora oggi si fanno ammirare, nelle
corriere, dove il compito era reso molto più difficile per la grandezza e l’uso
del mezzo, i problemi si moltiplicavano, la corriera dimostrava ciò che questi
maestri riuscivano a raggiungere con il loro mestiere fondendo bellezza e
soluzioni intelligentemente integrate per l’utilizzo che i turisti se non i
viaggiatori avevano a disposizione. Pensare che un ingombro di quelle
dimensioni fosse sagomato in modo da esprimere l’idea della leggerezza e
dell’armonia tra le curve, gli spigoli e i pannelli di lamiera, presentandosi
come un lavoro di alta sartoria che rivestiva, nascondendoli, il telaio e il
grande motore diesel, tanto da inorgoglire nei viaggi i partecipanti. Così
quegli artigiani-artisti ci dimostravano le loro capacità diventando con il
loro lavoro conosciuti ed apprezzati in ogni paese, tanto da essere stimati e
cercati tutt’oggi dalle grandi case automobilistiche
presenti nel mondo creando, qui in Italia, scuole che profondevano l’arte del
design anche alle successive generazioni. Possiamo dire che lo stile e le forme
degli autoveicoli italiani è sempre stata portatrice di grandi emozioni a chi
si sofferma ad ammirarla, sono famosi i concorsi di stile come quello di Villa
d’Este dove i vari designer gareggiavano per proporsi con idee e prototipi che
marcassero la loro creazione, dove si vedevano primeggiare auto come la Lancia
Astura o l’Alfa Romeo Monterosa stabilendo quasi sempre una supremazia sulle
altre presentate dei paesi concorrenti. Noi italiani andiamo giustamente fieri
per questo e ci viene spontaneo criticare certi automezzi che ci appaiono
sgraziati, ci sembrano pesanti nelle loro linee, inespressivi nella loro
personalità, fatti da uomini che riuscivano a costruirli solamente per lo scopo
al quale erano destinati, senza pensare di renderli esteticamente presentabili
alla vista di li scorgeva. Un plauso allora a chi è stato capace di forgiare
macchine che hanno saputo scaturire emozioni e sentimenti dando ottimismo e
gioia a noi che le ammiriamo. Ricordandoci del loro lavoro porgiamo un pensiero
agli autisti di autobus e corriere, ci rivolgiamo sia a quelli della linea che
a quelli del turismo. Chissà quante storie ci potrebbero raccontare. Il
camionista e l’autista mestieri uguali e diversi, nello stesso ambiente fatto
di mezzi pesanti e strade, uno a contatto con la gente si può riconoscere
soddisfatto del proprio servizio rivolto ai passeggeri, seduti vicino a lui
mentre guida, osservano attenti e curiosi il suo lavoro e il mezzo che con le
sue forme e i suoi rumori li porta alle loro destinazioni, quanti bambini
entusiasti di viaggiare sulle corriere hanno saputo appassionarsi vedendo tutto
questo e rimanendone conquistati hanno sognato di diventare protagonisti a loro
volta di questo mondo. Si racconta di un dialogo tra un camionista e un’autista
di corriere, persone diverse per ruoli diversi, chi con i passeggeri chi con le
merci, ma tutti e due concordi nel finire quel discorso con la stessa frase:
”con nessun altro lavoro cambierei questo mestiere”.
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Questo e' un esempio di come una autovettura poteva essere riadattata per un uso commerciale, FIAT 1.100 degli anni '50. |
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LANCIA 3 RO, metà anni '30, utilizzato per trasporto prodotti agricoli. |
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Corriera della carrozzeria Calabrese, in Puglia, con motore FIAT 682, questi motori venivano adattati per essere installati adagiati solitamente di 90 gradi sotto il piano occupato dai passeggeri. |
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Dall'alto verso il basso vediamo due FIAT 640 N, FIAT 125 e FIAT 682 N2, LANCIA ESATAU B, LANCIA ESATAU e due FIAT 682 N2 tre assi. |
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In colonna per ultimo scorgiamo il "BULLY" pulmino VOLKSWAGEN di 1.200 cc. |
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Dall'alto verso il basso riconosciamo il FIAT 666 N7, LANCIA 3RO e un'altro FIAT 666 N7 con rimorchio due assi. |
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Alcuni esempi di corriere su meccanica LANCIA e FIAT. |
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Scene dal porto di Savona anni '20-'30 xx secolo. |
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