Avere una passione per
qualcosa significa indirizzare le nostre attenzioni e le nostre idee verso cose
che, dandoci sempre stimoli nuovi e consegnandoci tracce di altre persone di
cui conservano anche parte del loro sapere, ci fanno crescere e ci riempiono
l’anima e il cuore. La nostra passione sono i camion. Quando li vediamo ci
voltiamo verso di loro come si fa solitamente incontrando un amico oppure un
nuovo conoscente, perché non manca mai di destare la nostra attenzione nel
rivelarci notizie nuove e interessanti. I camion lo facevano per noi
mostrandosi con le differenze delle varie case costruttrici, stili diversi appartenenti a
marche italiane costruttrici di automezzi inconfondibili nel modo di
presentarsi. Con altrettante originali soluzioni rivolte ai trasporti di
settori specifici dell’economia, come anche le loro qualità migliorative
riguardo le prestazioni, perciò la potenza del motore, l’assetto delle
sospensioni e l’affidabilità meccanica necessarie per viaggiare con pesanti
carichi e nel traffico che si intensificava e velocizzava. In quegli anni
cinquanta l’ITALIA era un paese guidato da un popolo laborioso, non esisteva
nell’economia una finanza di massa, il lavoro produceva novità derivate dalla
ricerca che inorgoglivano e soddisfacevano quegli uomini, impegnati nelle
attività di un’economia in via di modernizzazione, i quali già negli anni 50
del dopoguerra ci spingevano velocemente nel futuro tanto da farlo diventare
presente. Il trasporto su strada, quando ero giovane, era solitamente rappresentato
da autotreni cassonati, le sponde dovevano costituire un insieme efficiente col
piano di carico, questi robusto da sopportare il peso della merce e quelle da
contenerla nel modo migliore, perché in
quei tempi la merce non era rinchiusa dentro ai containers ma imballandola
veniva continuamente caricata e scaricata sui diversi mezzi di trasporto che la
conducevano durante tutto il viaggio sino ad arrivare alla sua destinazione. Il
cassone dei camion sembra la parte più semplice del mezzo ma, giustamente, ha
comunque sempre fatto riflettere tutti i camionisti nell’armare il proprio
automezzo, chi lo voleva fisso, come i primi attacchi corredati da sponde di
lamiera debole ma internamente irrobustite da assi di legno, oppure
ribaltabile, con le sponde sempre più leggere per contenere il peso della
“tara” e via discorrendo quasi all’infinito, già questo argomento aprirebbe un
dialogo, come direbbe Pescio, da trattare intorno ad un tavolo imbandito con
salumi, formaggi e pane e vino a volontà. Non ricordo precisamente quando ho
iniziato a valutare le cisterne come un settore fondamentale dei trasporti, per
me il trasporto su strada erano gli autotreni allestiti dai cassoni tuttalpiù
centinati, la curiosità di vedere cassoni nuovi diversi tra loro già mi appagava
e, immaginando come avessi carrozzato un camion non allargavo oltre il mio
pensiero. Gli amici nati dopo gli anni sessanta del XX secolo devono sempre
sforzarsi di ricordare che le merci, allora, erano movimentate sempre da
numerosi addetti che, come dicono oggi gli operators dell’intermodale, le
spostavano imballandole in ogni trasferimento per custodirle protette, dalle
stive della nave ai vagoni dei treni, agli autocarri e così anche sui carri
trainati dagli animali ancora in circolazione. Tutte quelle merci erano
semplici, grezze, certamente preziose, perché il trasporto sulle lunghe
distanze sino a pochi decenni fa’ era destinato a pochi consumatori e in minime
quantità. Così il maneggiarle con cura e attenzione, con movimenti lenti,
dedicati a un qualcosa che ha valore, permetteva di osservarle e cominciare a
conoscerle. Adesso, invece, con la organizzazione che prevede l’uso solamente
di containers, tutto diventa anonimo, questi le nascondono richiudendole durante
tutto il loro tragitto e, gli automezzi carrozzati con pianali scarni e forniti
dei “twisters”, sono pronti a caricarli tutti
eguali senza quella collaborazione e partecipazione di uomini, nominati
facchini o camalli, che faceva del trasporto una parte importante dell’economia
sostenendo la produzione e la vendita. Penso sia necessario soffermarci ancora
sull’aspetto delle merci di quei tempi, già nei capitoli di questo libro
abbiamo adoperato un po’ di aggettivi per rappresentarle e da questo
immaginiamo come gli automezzi erano progettati per portarle, ma non tutte le
merci erano allo stato solido, i liquidi, le nuove sostanze prodotte
dall’industria in considerevole quantità, ora anch’esse dovevano essere
trasportate. La cisterna nasce per questo, dalla necessità di trasportare liquidi,
polverulenti, gas, materie gelatinose e quant’altro in grande quantità.
Progettare un furgone idoneo al trasporto di bottiglie contenenti latte, per
esempio, non è molto diverso da quello usato per caricare scatole di sapone, ma
una cisterna fatta per contenere decine di migliaia di litri di benzina ci appare
ben diversa alla vista se confrontata a un cassonato. Adesso possiamo iniziare
ad affrontare l’argomento cisterne senza dimenticare che, col progredire dei
tempi, le industrie con i loro prodotti sempre più variegati commissionavano
trasporti per molteplici tipi di materie, sia liquide che gassose, tante delle
quali denominate dal codice della strada “pericolose”.
Gli anni giocavano a
rincorrersi sempre più velocemente, gli uomini impegnati nelle loro ricerche e
innovazioni non si accorgevano della velocità con cui cambiavano gli usi e i
consumi delle masse. Da quel vivere cadenzato dal passare delle stagioni,
governato, sino a poco tempo prima dell’avvento dell’industria,
dall’agricoltura e dall’allevamento, questi avevano abituato le popolazioni al
ritmo del cammino del sole e della luna nel cielo, la natura prendeva per mano
l’umanità e la faceva procedere alla sua velocità, l’uomo con l’industria aveva
creato un suo mondo che aveva ormai ritmi diversi da quelli e, l’autotrasporto
su strada, in questa grande orchestra ne era uno dei principali strumenti. E’
sorprendente come l’uomo abbia creato automezzi capaci di trasportare così
grandi quantità di liquidi, gas o materie ridotte in polvere, nel modo sicuro e
veloce come noi oggi vediamo.
Pensate alle tigri e ai leoni
quando lavorano negli spettacoli del circo, là si usano le gabbie per difendere
gli spettatori, così le cisterne, che contengono quelle materie ancorché
pericolose, devono essere equipaggiate da strumenti che ci difendano dal danno
che queste sostanze potrebbero arrecarci nell’essere costrette in quello spazio
chiuso e perciò potenzialmente foriero di spaventosi fenomeni chimici o fisici.
Le prime sostanze trasportate in cisterna sono stati i derivati del petrolio,
l’industria petrolifera frazionava l’oro nero in notevole quantità, le
raffinerie erano pochissime perciò, da qui, il bisogno di portare benzine,
gasolio e gli altri derivati nei punti di vendita che iniziavano a comparire in
ogni comune. La benzina alla fine dell’ottocento, per le prime auto, si
comprava in farmacia, nel novecento, negli anni a cavallo della prima guerra
mondiale, il traffico automobilistico aumentava cominciando ad avere le proprie
esigenze che venivano assecondate in modo da agevolare chi possedeva
un’autovettura, questo stato nascente moderno richiedeva dunque l’appoggio di
ditte, proprietarie di automezzi forniti di cisterne, che trasportassero il
combustibile ormai indispensabile per un numero sempre maggiore di conducenti
di autoveicoli.
Come negli anni trenta, per
le cabine dei camion, si cercavano le capacità secolari nel lavorare il legno
dei “carraderi”, meravigliosi artigiani costruttori delle carrozze trainate dai
cavalli, così le autobotti venivano commissionate ai migliori e più intraprendenti
“fabbri” che si potevano trovare sul territorio, i quali dovevano inventarsi
questi serbatoi viaggianti dotandoli delle strumentazioni di sicurezza e di
controllo del contenuto. Qui a Savona non possiamo ignorare la figura del
signor ANGELO DELFINO, formatosi nelle officine dove lavoravano il ferro nel
periodo in mezzo ai due conflitti mondiali, fu ben presto titolare di una ditta
sua che, prima di passare ad opere veramente importanti come la realizzazione dei
silos dello stabilimento di Imperia della PASTA AGNESI o come anche dei
serbatoi eseguiti su commissione dei Fratelli CARLI, sempre di Imperia, ha
realizzato cisterne sia per gli autocarri che per i vagoni ferroviari e, visto
che i suoi manufatti meritavano di essere pubblicizzati aveva fatto forgiare,
nelle officine dai suoi collaboratori, una coppia di cisterne in miniatura così
da essere fissate sul tetto di una balilla della ditta la quale, viaggiando
sulle strade della Liguria, le mostrava come biglietto da visita per chi avesse
bisogno di lavori che richiedessero un’impresa capace e non solo a parole.
Queste cisterne riguardo alla concezione generale di impianto, non avevano
niente di meno di quelle attuali, la differenza consisteva nell’elettronica,
oggi installata a sostituzione dell’azione dell’uomo nel compiere, durante le
operazioni di carico e scarico, tutte le manovre di messa in sicurezza
nell’apertura o chiusura dei vari condotti a mezzo di valvole e manichette.
Adesso come allora erano le molle di acciaio a governare i valori per queste
operazioni, facendo funzionare valvole di eccesso di flusso oppure la valvola a
5 effetti per le cisterne “atmosferiche, il manettino per la valvola di fondo e
strumentazioni come la “medaglia” che invece era un indicatore di livello in
vetro, il duomo, così chiamato per la sua forma, posto in cima alla botte, il
quale aprendolo costituiva il passaggio per entrarci dentro ad ispezionarla. Applicate
su questo potevamo trovare valvole di fase liquida o di fase gas oltre alla già
citata valvola a 5 effetti che permetteva la decompressione e la aerazione
garantendo la sicurezza da quei pericoli dettati dalla fisica o dalla chimica.
Ricordiamo che per fare accartocciare irreparabilmente una cisterna basta
solamente un differenziale di pressione di decimi di bar o atmosfere, perciò
nello scarico o carico i cisternisti dovevano prestare la massima attenzione
nell’esecuzione, dovevano avere la certezza di fare un gesto corretto del quale
in quel momento fossero sicuri della necessità, rispettando un decalogo di
procedura obbligatorio dettato a tutti gli addetti.
Le cisterne sino ad ora
citate sono dette “atmosferiche”, perché lavorano alla stessa pressione che c’è
nell’atmosfera che le circonda, non sono assolutamente semplici ma sono le più
semplici nel confronto a quelle utilizzate per gli altri prodotti già
menzionati. Queste autocisterne erano adoperate per il trasporto dei derivati
del petrolio, le vedevamo transitare sulle strade decorate in modo vistoso
dalle varie compagnie petrolifere. Le verniciavano con i colori vivaci dei
marchi delle Sette Sorelle, tante erano le industrie che governavano l’intero
commercio del petrolio nel mondo, e le carrozzavano coprendole di lamierati che
le racchiudessero in un elegante vestito, questo le rendeva ancora più diverse
dagli altri camion. In Liguria dove l’aeroporto di Genova-Sestri Ponente
accoglieva i primi voli internazionali fatti con gli aerei tipo ”Caravelle”
della Boeing americana, gli aerei più usati per quei tipi di rotte, si vedevano
autobotti ancora più particolari perché di dimensioni enormi in quanto dovevano
riempire i serbatoi degli aerei in un solo viaggio e, non dovendo rispettare il
codice con le limitazioni che poneva, perché il loro lavoro era eseguito
solamente in ambito aeroportuale, le officine fabbricanti le carrozzerie ci
facevano vedere delle vere e proprie fuoriserie.
Al riguardo, non molto tempo
fa’, ho avuto l’occasione di conoscere il Signor LORENZO MARTELLO, nato e
cresciuto a Genova Rivarolo, Suo papà MARIO conosciuto come “U TRACAGNOTTU” dal
suo robusto aspetto fisico in giovane età, era un carrettiere addetto alla
domiciliazione, faceva trasporti con i carri trainati dai suoi cavalli dal
porto a tutte quelle aziende che si trovavano in città per fornirle delle merci
arrivate in nave da ogni dove, il Signor Lorenzo seguendo le orme del padre, ma
con mezzi moderni, diventò un giovanissimo camionista, ebbe un bravo e paterno
capomacchina che gli insegnò oltre che a guidare e gestire un cassonato anche a
capire che per diventare un vero professionista bisognava essere uomini veri,
persone che, al contrario di quello che la gente lontana da questo ambiente
immagina, non sono persone scappate da casa ma uomini costretti a lavorare
lontani da casa, capaci di gestire il loro camion in modo da poterne trarre un
giusto guadagno, a fronte di sforzi e sacrifici fatti sulla strada dove i
pericoli alle volte sono incontrollabili, capaci di gestire un’attività
rappresentata appunto dal proprio automezzo. Prima del 1954, anno in cui
diventò un dipendente di una delle maggiori aziende del settore petrolifero
allora presenti in Italia, Lorenzo terminò l’apprendistato col padroncino del
camion, maestro esperto del mestiere, diventando a tutti gli effetti, Lui
stesso membro della categoria, così un giorno ritornando a casa all’ora di
pranzo trovò al posto del piatto una berretta di cuoio, era il regalo della
Signora IRMA CASARI per suo figlio, ormai diventato adulto e capace di un
mestiere, Lorenzo con gli occhi lucidi prese la berretta e, ricordandosi di
aver visto i suoi colleghi indossarla come una parte importante
dell’abbigliamento, la mise in testa a completamento dell’uniforme senonché la
mamma ebbe subito a chiarire che la berretta era arrivata non per completare un
abito corporativistico, cioè una divisa, ma per proteggersi dal freddo inverno
visto che le cabine dei camion allora erano spartane a tal punto da non avere
nemmeno un tettuccio imbottito per attenuare le temperature di quella stagione.
Procedendo nel discorso delle cisterne, Lui nell’ambito dell’azienda aveva la
mansione di “chilolitrista”, era dunque colui che conduceva l’autobotte dal
deposito ai vari punti vendita del carburante anche per autotrazione. L’azienda
gli aveva riconosciuto una elevata professionalità, per questo, e per nostra
fortuna, lo aveva invitato ad essere protagonista di un servizio fotografico,
inerente la sua attività giornaliera, apparso sul giornale aziendale. Un
giornalista ed un fotografo lo avevano seguito e fotografato durante un’intera
giornata di lavoro, mai come questa volta le fotografie ci riportano indietro
negli anni facendoci vedere l’impegno e la concentrazione che richiedeva il
lavoro di queste persone, quando la tecnologia e ancor più l’elettronica non
esistevano, quando tutto era affidato alla competenza e professionalità
individuale di questi uomini. L’articolo apparso su quella pubblicazione,
benché scritto da un buon giornalista, non gli rende giusto merito, non sono
state trovate parole in grado di spiegare l’infallibilità di quei gesti e,
grazie a quelle fotografie, ora noi possiamo capire quale era veramente la capacità di chi
allora, per tutto il giorno e ogni giorno, portava a spasso decine di migliaia
di litri di combustibile. Il nome chilolitrista deriva dal tipo di autocisterna
impiegata per il trasporto, infatti la chilolitrica era una cisterna di
capacità almeno di tremila litri, atmosferica, divisa da scomparti chiusi che
la frazionavano al suo interno in settori da mille litri o multipli, ciascuno
controllato dall’ufficio metrico pesi e misure provinciale per constatarne
ufficialmente la capacità. Con essa perciò si potevano trasportare diversi tipi
di prodotti e, sapendo la capacità di ogni scomparto, si poteva quindi
rifornire il distributore, al momento giusto, con una quantità esatta di
carburante senza aver bisogno di apparecchiature contalitri, visto che i
numerosi scomparti, riconoscibili dai duomi sulla sommità della botte,
permettevano al “routinista”, l’impiegato del deposito addetto alla
composizione del carico, di studiare come riempire l’autobotte nel modo più
conveniente possibile. Dopo la seconda guerra mondiale le raffinerie di petroli
erano le prime grandi industrie che producevano enormi quantità di prodotti
finiti, questo rendeva necessario gestire oculatamente la gestione della
produzione, perché enormi quantità possono creare enormi costi e, da essi, la
gestione della distribuzione determinava il risultato finale dell’esercizio
economico dell’azienda. Ritornando al nostro amico Lorenzo, in queste
fotografie lo vedremo impegnato sin dalla mattina a collegare bocchettoni di
manichette ai serbatoi, aprire valvole di fondo e conseguentemente valvole di
carico, chiuderle con tappi ciechi e verificare collegamenti per il recupero
dei vapori tramite il ciclo chiuso, come anche unire il cavo della messa a
terra senza tralasciare di capire durante il rifornimento, dove immettere i
prodotti, infatti poteva capitare che, essendo
ubicate diversamente tra loro le cisterne nei vari distributori, non si riconoscesse quello che
conteneva lo stesso tipo di carburante, perciò evitando di mescolarli
rendendoli invendibili, questo errore era conosciuto col nome di inquinamento,
e dunque di fare un grave danno. Prima di lasciare il trasporto dei prodotti
petroliferi dobbiamo sottolineare ancora un argomento al quale gli addetti alla
costruzione degli impianti, come pure
quelli delle autocisterne, si erano preoccupati di risolvere, l’inquinamento
dell’ambiente. Avevano pensato di proteggerlo installando una manichetta, più
piccola di diametro rispetto a quella che conteneva il prodotto, collegata da
una parte alla sommità della botte e dall’altra al cielo del serbatoio
dell’impianto, la quale, sia in fase di carico che di scarico, riportava a
seconda dell’operazione effettuata i gas nella parte che si andava svuotando,
muovendo le stesse volumetrie dei vapori emanati sia per la temperatura esterna
sia per lo sbattimento dovuto al viaggio, da un recipiente all’altro, senza che
un benché minimo quantitativo di questi si disperdesse nell’aria circostante. Questi,
conosciuti come valvole e condotti di fase gas e la piattina metallica di messa
a terra, di norma in rame, che collegava le parti metalliche dell’autobotte e
della cisterna alla messa a terra del serbatoio, al fine di scaricare le
correnti elettrostatiche accumulate durante il trasporto o per il passaggio del
liquido nelle manichette come nelle tubazioni durante il carico e lo scarico,
erano gli importanti accorgimenti dettati dall’intelligenza di quegli uomini
per proteggere dai pericoli le persone e l’ambiente. Possiamo constatare da
questo che i danni creati dall’eccessivo soddisfacimento dei bisogni superflui
dell’uomo trovano sovente un risanamento scaturito dall’intelligenza e
dall’infinita sensibilità dell’animo di chi lavora, come a dire che la fredda e
cinica scienza capace di far procedere l’umanità sulla strada che porta al
futuro ha obbligatoriamente bisogno degli occhi della coscienza degli uomini
che la guidano sicura per non farla cadere rovinosamente a terra. Ma, filosofia
e poesia a parte, procediamo nel trattare le cisterne lasciando gli amici delle
atmosferiche per andare ad incontrare quelli delle cisterne a pressione. Con
queste si trasportano sostanze corrosive, tossiche, vari tipi di gas, anche
raffreddati a meno 200 gradi centigradi e svariati altri tipi di materie
gassose. Noi, negli anni sessanta, le potevamo riconoscere quando transitavano
sulle strade dalla sezione dell’involucro tondo e non più ellittico o
policentrico, in quanto la sezione tonda della circonferenza permette il
contenimento di pressioni più alte rispetto alle altre figure geometriche. Pur
nascoste c’erano, ricavate all’interno tra un involucro piccolo e un altro
esterno più grande, tipo le matriosche,
delle intercapedini, queste ospitavano materiali adatti all’isolamento oppure
davano la possibilità di creare il vuoto, sistema ancora migliore per
trasportare la merce isolandola da agenti atmosferici che avrebbero potuto
scatenare fenomeni di instabilità. Dobbiamo chiarire dunque, riguardo a questi
trasporti rischiosi, che erano le varie forme geometriche delle sezioni degli
involucri ad informarci quali fossero i prodotti trasportati e non, come
avrebbero dovuto apparire, le etichette con i pannelli della normativa europea
nata negli anni cinquanta del dopoguerra ma che in Italia entrò in vigore
quarant’anni dopo, cioè negli anni novanta del ventesimo secolo, lasciando per
tutto quel tempo, specialmente nell’ambito nazionale, un settore così
pericolosamente e potenzialmente dannoso privo di regole. Tornado alle
questioni tecniche possiamo dedurre che strumentazioni tipo la valvola a cinque
effetti non faceva sicuramente più parte degli equipaggiamenti di questo tipo
di cisterne ma, su queste adesso, troveremo le valvole di sicurezza a
pressione. Queste valvole proteggevano le cisterne dalle sovrappressioni,
aprendosi se i vapori della sostanza contenuta raggiungevano i valori testati
durante i collaudi di tenuta della cisterna. Erano perciò la molla tarata per
un certo valore di pressione e anche un foglio metallico, chiamato disco di
rottura, applicato tra la valvola e la cisterna, a proteggere persone e
ambiente da danni causati da valori di pressioni i quali, a seconda di cosa si
stava trasportando, erano compresi tra le 2 atmosfere e le 30 atmosfere. Le
autocisterne dunque si prestano a svariati tipi di trasporto su strada, dai
prodotti alimentari alle merci pericolose, al contrario dei cassonati, queste
devono specificatamente essere costruite in ragione delle merci che dovranno
trasportare, ricordiamo inoltre dei pochi e brevi tratti autostradali costruiti
in Italia sino agli anni sessanta del XX secolo, comprendevano una sola
carreggiata con doppio senso di marcia, difatti non erano rari gli incidenti
con ben gravi conseguenze.
Queste poche e semplici righe,
scritte però con ”passione”, vogliono solo accompagnare le ben più esplicative
fotografie dei veri protagonisti con l’auspicio di far scaturire a chi aprirà
questo libro, la memoria per un passato fatto di uomini, di famiglie, di paesi
che lavorando hanno portato avanti il paese creando una società da lasciare ai
propri figli, in modo che loro, poggiando i piedi su queste fondamenta, non ne
fossero mai traditi, potendo onorare chi ci ha dato la vita, generazione dopo
generazione, continuando a ricercare civilmente traguardi sempre più lontani.
Bella storia. Grazie Danilo, per chi ha la passione dei camion sarà sicuramente una lettura piacevole
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