giovedì 17 novembre 2016

LE CISTERNE

Avere una passione per qualcosa significa indirizzare le nostre attenzioni e le nostre idee verso cose che, dandoci sempre stimoli nuovi e consegnandoci tracce di altre persone di cui conservano anche parte del loro sapere, ci fanno crescere e ci riempiono l’anima e il cuore. La nostra passione sono i camion. Quando li vediamo ci voltiamo verso di loro come si fa solitamente incontrando un amico oppure un nuovo conoscente, perché non manca mai di destare la nostra attenzione nel rivelarci notizie nuove e interessanti. I camion lo facevano per noi mostrandosi con le differenze delle varie case costruttrici, stili diversi appartenenti a marche italiane costruttrici di automezzi inconfondibili nel modo di presentarsi. Con altrettante originali soluzioni rivolte ai trasporti di settori specifici dell’economia, come anche le loro qualità migliorative riguardo le prestazioni, perciò la potenza del motore, l’assetto delle sospensioni e l’affidabilità meccanica necessarie per viaggiare con pesanti carichi e nel traffico che si intensificava e velocizzava. In quegli anni cinquanta l’ITALIA era un paese guidato da un popolo laborioso, non esisteva nell’economia una finanza di massa, il lavoro produceva novità derivate dalla ricerca che inorgoglivano e soddisfacevano quegli uomini, impegnati nelle attività di un’economia in via di modernizzazione, i quali già negli anni 50 del dopoguerra ci spingevano velocemente nel futuro tanto da farlo diventare presente. Il trasporto su strada, quando ero giovane, era solitamente rappresentato da autotreni cassonati, le sponde dovevano costituire un insieme efficiente col piano di carico, questi robusto da sopportare il peso della merce e quelle da contenerla nel modo migliore, perché  in quei tempi la merce non era rinchiusa dentro ai containers ma imballandola veniva continuamente caricata e scaricata sui diversi mezzi di trasporto che la conducevano durante tutto il viaggio sino ad arrivare alla sua destinazione. Il cassone dei camion sembra la parte più semplice del mezzo ma, giustamente, ha comunque sempre fatto riflettere tutti i camionisti nell’armare il proprio automezzo, chi lo voleva fisso, come i primi attacchi corredati da sponde di lamiera debole ma internamente irrobustite da assi di legno, oppure ribaltabile, con le sponde sempre più leggere per contenere il peso della “tara” e via discorrendo quasi all’infinito, già questo argomento aprirebbe un dialogo, come direbbe Pescio, da trattare intorno ad un tavolo imbandito con salumi, formaggi e pane e vino a volontà. Non ricordo precisamente quando ho iniziato a valutare le cisterne come un settore fondamentale dei trasporti, per me il trasporto su strada erano gli autotreni allestiti dai cassoni tuttalpiù centinati, la curiosità di vedere cassoni nuovi diversi tra loro già mi appagava e, immaginando come avessi carrozzato un camion non allargavo oltre il mio pensiero. Gli amici nati dopo gli anni sessanta del XX secolo devono sempre sforzarsi di ricordare che le merci, allora, erano movimentate sempre da numerosi addetti che, come dicono oggi gli operators dell’intermodale, le spostavano imballandole in ogni trasferimento per custodirle protette, dalle stive della nave ai vagoni dei treni, agli autocarri e così anche sui carri trainati dagli animali ancora in circolazione. Tutte quelle merci erano semplici, grezze, certamente preziose, perché il trasporto sulle lunghe distanze sino a pochi decenni fa’ era destinato a pochi consumatori e in minime quantità. Così il maneggiarle con cura e attenzione, con movimenti lenti, dedicati a un qualcosa che ha valore, permetteva di osservarle e cominciare a conoscerle. Adesso, invece, con la organizzazione che prevede l’uso solamente di containers, tutto diventa anonimo, questi le nascondono richiudendole durante tutto il loro tragitto e, gli automezzi carrozzati con pianali scarni e forniti dei “twisters”,  sono pronti a caricarli tutti eguali senza quella collaborazione e partecipazione di uomini, nominati facchini o camalli, che faceva del trasporto una parte importante dell’economia sostenendo la produzione e la vendita. Penso sia necessario soffermarci ancora sull’aspetto delle merci di quei tempi, già nei capitoli di questo libro abbiamo adoperato un po’ di aggettivi per rappresentarle e da questo immaginiamo come gli automezzi erano progettati per portarle, ma non tutte le merci erano allo stato solido, i liquidi, le nuove sostanze prodotte dall’industria in considerevole quantità, ora anch’esse dovevano essere trasportate. La cisterna nasce per questo, dalla necessità di trasportare liquidi, polverulenti, gas, materie gelatinose e quant’altro in grande quantità. Progettare un furgone idoneo al trasporto di bottiglie contenenti latte, per esempio, non è molto diverso da quello usato per caricare scatole di sapone, ma una cisterna fatta per contenere decine di migliaia di litri di benzina ci appare ben diversa alla vista se confrontata a un cassonato. Adesso possiamo iniziare ad affrontare l’argomento cisterne senza dimenticare che, col progredire dei tempi, le industrie con i loro prodotti sempre più variegati commissionavano trasporti per molteplici tipi di materie, sia liquide che gassose, tante delle quali denominate dal codice della strada “pericolose”.
Gli anni giocavano a rincorrersi sempre più velocemente, gli uomini impegnati nelle loro ricerche e innovazioni non si accorgevano della velocità con cui cambiavano gli usi e i consumi delle masse. Da quel vivere cadenzato dal passare delle stagioni, governato, sino a poco tempo prima dell’avvento dell’industria, dall’agricoltura e dall’allevamento, questi avevano abituato le popolazioni al ritmo del cammino del sole e della luna nel cielo, la natura prendeva per mano l’umanità e la faceva procedere alla sua velocità, l’uomo con l’industria aveva creato un suo mondo che aveva ormai ritmi diversi da quelli e, l’autotrasporto su strada, in questa grande orchestra ne era uno dei principali strumenti. E’ sorprendente come l’uomo abbia creato automezzi capaci di trasportare così grandi quantità di liquidi, gas o materie ridotte in polvere, nel modo sicuro e veloce come noi oggi vediamo.
Pensate alle tigri e ai leoni quando lavorano negli spettacoli del circo, là si usano le gabbie per difendere gli spettatori, così le cisterne, che contengono quelle materie ancorché pericolose, devono essere equipaggiate da strumenti che ci difendano dal danno che queste sostanze potrebbero arrecarci nell’essere costrette in quello spazio chiuso e perciò potenzialmente foriero di spaventosi fenomeni chimici o fisici. Le prime sostanze trasportate in cisterna sono stati i derivati del petrolio, l’industria petrolifera frazionava l’oro nero in notevole quantità, le raffinerie erano pochissime perciò, da qui, il bisogno di portare benzine, gasolio e gli altri derivati nei punti di vendita che iniziavano a comparire in ogni comune. La benzina alla fine dell’ottocento, per le prime auto, si comprava in farmacia, nel novecento, negli anni a cavallo della prima guerra mondiale, il traffico automobilistico aumentava cominciando ad avere le proprie esigenze che venivano assecondate in modo da agevolare chi possedeva un’autovettura, questo stato nascente moderno richiedeva dunque l’appoggio di ditte, proprietarie di automezzi forniti di cisterne, che trasportassero il combustibile ormai indispensabile per un numero sempre maggiore di conducenti di autoveicoli.
Come negli anni trenta, per le cabine dei camion, si cercavano le capacità secolari nel lavorare il legno dei “carraderi”, meravigliosi artigiani costruttori delle carrozze trainate dai cavalli, così le autobotti venivano commissionate ai migliori e più intraprendenti “fabbri” che si potevano trovare sul territorio, i quali dovevano inventarsi questi serbatoi viaggianti dotandoli delle strumentazioni di sicurezza e di controllo del contenuto. Qui a Savona non possiamo ignorare la figura del signor ANGELO DELFINO, formatosi nelle officine dove lavoravano il ferro nel periodo in mezzo ai due conflitti mondiali, fu ben presto titolare di una ditta sua che, prima di passare ad opere veramente importanti come la realizzazione dei silos dello stabilimento di Imperia della PASTA AGNESI o come anche dei serbatoi eseguiti su commissione dei Fratelli CARLI, sempre di Imperia, ha realizzato cisterne sia per gli autocarri che per i vagoni ferroviari e, visto che i suoi manufatti meritavano di essere pubblicizzati aveva fatto forgiare, nelle officine dai suoi collaboratori, una coppia di cisterne in miniatura così da essere fissate sul tetto di una balilla della ditta la quale, viaggiando sulle strade della Liguria, le mostrava come biglietto da visita per chi avesse bisogno di lavori che richiedessero un’impresa capace e non solo a parole. Queste cisterne riguardo alla concezione generale di impianto, non avevano niente di meno di quelle attuali, la differenza consisteva nell’elettronica, oggi installata a sostituzione dell’azione dell’uomo nel compiere, durante le operazioni di carico e scarico, tutte le manovre di messa in sicurezza nell’apertura o chiusura dei vari condotti a mezzo di valvole e manichette. Adesso come allora erano le molle di acciaio a governare i valori per queste operazioni, facendo funzionare valvole di eccesso di flusso oppure la valvola a 5 effetti per le cisterne “atmosferiche, il manettino per la valvola di fondo e strumentazioni come la “medaglia” che invece era un indicatore di livello in vetro, il duomo, così chiamato per la sua forma, posto in cima alla botte, il quale aprendolo costituiva il passaggio per entrarci dentro ad ispezionarla. Applicate su questo potevamo trovare valvole di fase liquida o di fase gas oltre alla già citata valvola a 5 effetti che permetteva la decompressione e la aerazione garantendo la sicurezza da quei pericoli dettati dalla fisica o dalla chimica. Ricordiamo che per fare accartocciare irreparabilmente una cisterna basta solamente un differenziale di pressione di decimi di bar o atmosfere, perciò nello scarico o carico i cisternisti dovevano prestare la massima attenzione nell’esecuzione, dovevano avere la certezza di fare un gesto corretto del quale in quel momento fossero sicuri della necessità, rispettando un decalogo di procedura obbligatorio dettato a tutti gli addetti.
Le cisterne sino ad ora citate sono dette “atmosferiche”, perché lavorano alla stessa pressione che c’è nell’atmosfera che le circonda, non sono assolutamente semplici ma sono le più semplici nel confronto a quelle utilizzate per gli altri prodotti già menzionati. Queste autocisterne erano adoperate per il trasporto dei derivati del petrolio, le vedevamo transitare sulle strade decorate in modo vistoso dalle varie compagnie petrolifere. Le verniciavano con i colori vivaci dei marchi delle Sette Sorelle, tante erano le industrie che governavano l’intero commercio del petrolio nel mondo, e le carrozzavano coprendole di lamierati che le racchiudessero in un elegante vestito, questo le rendeva ancora più diverse dagli altri camion. In Liguria dove l’aeroporto di Genova-Sestri Ponente accoglieva i primi voli internazionali fatti con gli aerei tipo ”Caravelle” della Boeing americana, gli aerei più usati per quei tipi di rotte, si vedevano autobotti ancora più particolari perché di dimensioni enormi in quanto dovevano riempire i serbatoi degli aerei in un solo viaggio e, non dovendo rispettare il codice con le limitazioni che poneva, perché il loro lavoro era eseguito solamente in ambito aeroportuale, le officine fabbricanti le carrozzerie ci facevano vedere delle vere e proprie fuoriserie.
Al riguardo, non molto tempo fa’, ho avuto l’occasione di conoscere il Signor LORENZO MARTELLO, nato e cresciuto a Genova Rivarolo, Suo papà MARIO conosciuto come “U TRACAGNOTTU” dal suo robusto aspetto fisico in giovane età, era un carrettiere addetto alla domiciliazione, faceva trasporti con i carri trainati dai suoi cavalli dal porto a tutte quelle aziende che si trovavano in città per fornirle delle merci arrivate in nave da ogni dove, il Signor Lorenzo seguendo le orme del padre, ma con mezzi moderni, diventò un giovanissimo camionista, ebbe un bravo e paterno capomacchina che gli insegnò oltre che a guidare e gestire un cassonato anche a capire che per diventare un vero professionista bisognava essere uomini veri, persone che, al contrario di quello che la gente lontana da questo ambiente immagina, non sono persone scappate da casa ma uomini costretti a lavorare lontani da casa, capaci di gestire il loro camion in modo da poterne trarre un giusto guadagno, a fronte di sforzi e sacrifici fatti sulla strada dove i pericoli alle volte sono incontrollabili, capaci di gestire un’attività rappresentata appunto dal proprio automezzo. Prima del 1954, anno in cui diventò un dipendente di una delle maggiori aziende del settore petrolifero allora presenti in Italia, Lorenzo terminò l’apprendistato col padroncino del camion, maestro esperto del mestiere, diventando a tutti gli effetti, Lui stesso membro della categoria, così un giorno ritornando a casa all’ora di pranzo trovò al posto del piatto una berretta di cuoio, era il regalo della Signora IRMA CASARI per suo figlio, ormai diventato adulto e capace di un mestiere, Lorenzo con gli occhi lucidi prese la berretta e, ricordandosi di aver visto i suoi colleghi indossarla come una parte importante dell’abbigliamento, la mise in testa a completamento dell’uniforme senonché la mamma ebbe subito a chiarire che la berretta era arrivata non per completare un abito corporativistico, cioè una divisa, ma per proteggersi dal freddo inverno visto che le cabine dei camion allora erano spartane a tal punto da non avere nemmeno un tettuccio imbottito per attenuare le temperature di quella stagione. Procedendo nel discorso delle cisterne, Lui nell’ambito dell’azienda aveva la mansione di “chilolitrista”, era dunque colui che conduceva l’autobotte dal deposito ai vari punti vendita del carburante anche per autotrazione. L’azienda gli aveva riconosciuto una elevata professionalità, per questo, e per nostra fortuna, lo aveva invitato ad essere protagonista di un servizio fotografico, inerente la sua attività giornaliera, apparso sul giornale aziendale. Un giornalista ed un fotografo lo avevano seguito e fotografato durante un’intera giornata di lavoro, mai come questa volta le fotografie ci riportano indietro negli anni facendoci vedere l’impegno e la concentrazione che richiedeva il lavoro di queste persone, quando la tecnologia e ancor più l’elettronica non esistevano, quando tutto era affidato alla competenza e professionalità individuale di questi uomini. L’articolo apparso su quella pubblicazione, benché scritto da un buon giornalista, non gli rende giusto merito, non sono state trovate parole in grado di spiegare l’infallibilità di quei gesti e, grazie a quelle fotografie, ora noi possiamo capire  quale era veramente la capacità di chi allora, per tutto il giorno e ogni giorno, portava a spasso decine di migliaia di litri di combustibile. Il nome chilolitrista deriva dal tipo di autocisterna impiegata per il trasporto, infatti la chilolitrica era una cisterna di capacità almeno di tremila litri, atmosferica, divisa da scomparti chiusi che la frazionavano al suo interno in settori da mille litri o multipli, ciascuno controllato dall’ufficio metrico pesi e misure provinciale per constatarne ufficialmente la capacità. Con essa perciò si potevano trasportare diversi tipi di prodotti e, sapendo la capacità di ogni scomparto, si poteva quindi rifornire il distributore, al momento giusto, con una quantità esatta di carburante senza aver bisogno di apparecchiature contalitri, visto che i numerosi scomparti, riconoscibili dai duomi sulla sommità della botte, permettevano al “routinista”, l’impiegato del deposito addetto alla composizione del carico, di studiare come riempire l’autobotte nel modo più conveniente possibile. Dopo la seconda guerra mondiale le raffinerie di petroli erano le prime grandi industrie che producevano enormi quantità di prodotti finiti, questo rendeva necessario gestire oculatamente la gestione della produzione, perché enormi quantità possono creare enormi costi e, da essi, la gestione della distribuzione determinava il risultato finale dell’esercizio economico dell’azienda. Ritornando al nostro amico Lorenzo, in queste fotografie lo vedremo impegnato sin dalla mattina a collegare bocchettoni di manichette ai serbatoi, aprire valvole di fondo e conseguentemente valvole di carico, chiuderle con tappi ciechi e verificare collegamenti per il recupero dei vapori tramite il ciclo chiuso, come anche unire il cavo della messa a terra senza tralasciare di capire durante il rifornimento, dove immettere i prodotti,  infatti poteva capitare che, essendo ubicate diversamente tra loro le cisterne nei vari  distributori, non si riconoscesse quello che conteneva lo stesso tipo di carburante, perciò evitando di mescolarli rendendoli invendibili, questo errore era conosciuto col nome di inquinamento, e dunque di fare un grave danno. Prima di lasciare il trasporto dei prodotti petroliferi dobbiamo sottolineare ancora un argomento al quale gli addetti alla costruzione  degli impianti, come pure quelli delle autocisterne, si erano preoccupati di risolvere, l’inquinamento dell’ambiente. Avevano pensato di proteggerlo installando una manichetta, più piccola di diametro rispetto a quella che conteneva il prodotto, collegata da una parte alla sommità della botte e dall’altra al cielo del serbatoio dell’impianto, la quale, sia in fase di carico che di scarico, riportava a seconda dell’operazione effettuata i gas nella parte che si andava svuotando, muovendo le stesse volumetrie dei vapori emanati sia per la temperatura esterna sia per lo sbattimento dovuto al viaggio, da un recipiente all’altro, senza che un benché minimo quantitativo di questi si disperdesse nell’aria circostante. Questi, conosciuti come valvole e condotti di fase gas e la piattina metallica di messa a terra, di norma in rame, che collegava le parti metalliche dell’autobotte e della cisterna alla messa a terra del serbatoio, al fine di scaricare le correnti elettrostatiche accumulate durante il trasporto o per il passaggio del liquido nelle manichette come nelle tubazioni durante il carico e lo scarico, erano gli importanti accorgimenti dettati dall’intelligenza di quegli uomini per proteggere dai pericoli le persone e l’ambiente. Possiamo constatare da questo che i danni creati dall’eccessivo soddisfacimento dei bisogni superflui dell’uomo trovano sovente un risanamento scaturito dall’intelligenza e dall’infinita sensibilità dell’animo di chi lavora, come a dire che la fredda e cinica scienza capace di far procedere l’umanità sulla strada che porta al futuro ha obbligatoriamente bisogno degli occhi della coscienza degli uomini che la guidano sicura per non farla cadere rovinosamente a terra. Ma, filosofia e poesia a parte, procediamo nel trattare le cisterne lasciando gli amici delle atmosferiche per andare ad incontrare quelli delle cisterne a pressione. Con queste si trasportano sostanze corrosive, tossiche, vari tipi di gas, anche raffreddati a meno 200 gradi centigradi e svariati altri tipi di materie gassose. Noi, negli anni sessanta, le potevamo riconoscere quando transitavano sulle strade dalla sezione dell’involucro tondo e non più ellittico o policentrico, in quanto la sezione tonda della circonferenza permette il contenimento di pressioni più alte rispetto alle altre figure geometriche. Pur nascoste c’erano, ricavate all’interno tra un involucro piccolo e un altro esterno più  grande, tipo le matriosche, delle intercapedini, queste ospitavano materiali adatti all’isolamento oppure davano la possibilità di creare il vuoto, sistema ancora migliore per trasportare la merce isolandola da agenti atmosferici che avrebbero potuto scatenare fenomeni di instabilità. Dobbiamo chiarire dunque, riguardo a questi trasporti rischiosi, che erano le varie forme geometriche delle sezioni degli involucri ad informarci quali fossero i prodotti trasportati e non, come avrebbero dovuto apparire, le etichette con i pannelli della normativa europea nata negli anni cinquanta del dopoguerra ma che in Italia entrò in vigore quarant’anni dopo, cioè negli anni novanta del ventesimo secolo, lasciando per tutto quel tempo, specialmente nell’ambito nazionale, un settore così pericolosamente e potenzialmente dannoso privo di regole. Tornado alle questioni tecniche possiamo dedurre che strumentazioni tipo la valvola a cinque effetti non faceva sicuramente più parte degli equipaggiamenti di questo tipo di cisterne ma, su queste adesso, troveremo le valvole di sicurezza a pressione. Queste valvole proteggevano le cisterne dalle sovrappressioni, aprendosi se i vapori della sostanza contenuta raggiungevano i valori testati durante i collaudi di tenuta della cisterna. Erano perciò la molla tarata per un certo valore di pressione e anche un foglio metallico, chiamato disco di rottura, applicato tra la valvola e la cisterna, a proteggere persone e ambiente da danni causati da valori di pressioni i quali, a seconda di cosa si stava trasportando, erano compresi tra le 2 atmosfere e le 30 atmosfere. Le autocisterne dunque si prestano a svariati tipi di trasporto su strada, dai prodotti alimentari alle merci pericolose, al contrario dei cassonati, queste devono specificatamente essere costruite in ragione delle merci che dovranno trasportare, ricordiamo inoltre dei pochi e brevi tratti autostradali costruiti in Italia sino agli anni sessanta del XX secolo, comprendevano una sola carreggiata con doppio senso di marcia, difatti non erano rari gli incidenti con ben gravi conseguenze.

Queste poche e semplici righe, scritte però con ”passione”, vogliono solo accompagnare le ben più esplicative fotografie dei veri protagonisti con l’auspicio di far scaturire a chi aprirà questo libro, la memoria per un passato fatto di uomini, di famiglie, di paesi che lavorando hanno portato avanti il paese creando una società da lasciare ai propri figli, in modo che loro, poggiando i piedi su queste fondamenta, non ne fossero mai traditi, potendo onorare chi ci ha dato la vita, generazione dopo generazione, continuando a ricercare civilmente traguardi sempre più lontani.
La FIAT BALILLA che vediamo nella foto era di una ditta costruttrice di cisterne a Savona, dapprima  venivano montate sui carri ferroviari in quanto il traffico merci era servito della strada ferrata poi, quando la modernità assegnava all'autotrasporto il compito di gran parte del trasporto, le montava sugli automezzi e con questa autovettura si faceva pubblicità.

















In questa unica sequenza di fotogrammi degli anni '60 vediamo un capo macchina dedicarsi, con mestiere e competenza,  al carico dell'autocisterna nel deposito sino allo scarico nel punto vendita, operazione che non era assistita da nessun sistema di sicurezza automatico ma era affidata appunto all'esperienza dell'addetto, dunque alla padronanza di tutti gli aspetti che formavano il "mestiere".


Per ultimo il controllo della quantità scaricata, i contagiri non equipaggiavano ancora le autocisterne,  a stabilire quantità frazionate erano solamente gli scomparti divisori che le aziende costruttrici delle cisterne proponevano anche su richiesta dei clienti.
Negli anni '60 diverse carrozzerie, partendo da una base proposta da una delle grandi firme  italiane costruttrici di autocarri, mettevano in catalogo automezzi adatti a diversi usi richiesti dagli autotrasportatori come ad esempio questo FIAT 690 N3, immaginandolo con un rimorchio a 4 assi apparire sulle strade era un colosso impressionante. 
                                    
                                    

                               
LANCIA  3RO

                                    

1 commento:

  1. Bella storia. Grazie Danilo, per chi ha la passione dei camion sarà sicuramente una lettura piacevole

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